Il Congresso del Partito Liberale

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di LIVIO GHERSI

Grazie alle registrazioni di Radio Radicale ho seguito, quasi nella loro interezza, i lavori del Congresso nazionale del PLI, svoltosi a Roma nei giorni 23-25 marzo 2012.
Si sono confrontate due mozioni: la prima proponeva la riconferma, per la carica di Segretario nazionale, di Stefano de Luca; la seconda mirava ad eleggere al vertice del Partito il senatore Enrico Musso.
Alla fine, ha prevalso de Luca di stretta misura: la mozione che l’appoggiava ha avuto il voto di 122 delegati, mentre l’altra è stata sostenuta da 111 delegati. Dai discorsi congressuali, è emersa questa possibile chiave di lettura “politicista”: i liberali partecipano a pieno titolo alle grandi manovre all’interno del cosiddetto Terzo Polo. Soltanto che de Luca farebbe riferimento a Fini ed al FLI, mentre Musso sarebbe stata la soluzione migliore per riavvicinarsi a Casini ed all’UDC. L’API di Rutelli non riscalda i cuori, nonostante il “liberale” Vernetti e l’adesione di Valerio Zanone.

Questi, tuttavia, sono retropensieri che perdono di senso quando si esca dalla ristretta cerchia dei politici di professione. Invece, tra i delegati, c’era anche molta freschezza e genuina carica ideale. Un delegato di Matera esponeva in modo efficace la particolare condizione della Basilicata, la quale pure avrebbe grandi potenzialità. Un delegato di Padova, dopo una citazione di Ludwig von Mises, spiegava, in buona lingua italiana e con evidente conoscenza dell’argomento, in cosa dovrebbe consistere lo Stato minimo, anzi minimale, dei liberal-liberisti. In queste analisi, tutte ideologiche, manca del tutto l’approccio politico in senso stretto: considerata la realtà attuale, in quale modo, attraverso quali tappe intermedie, con quali costi sociali, sarebbe possibile arrivare all’ipotizzato traguardo dello Stato minimale? Come sarebbe possibile, in concreto, “restituire alla società” la gestione di primarie funzioni di interesse pubblico, eliminando le burocrazie esistenti? Io che pure capisco ed apprezzo le ragioni delle convinzioni ideali, non arrivo a tanto idealismo.

Come osservatore esterno, mi sarebbe piaciuto un cambio di segreteria. Chi ha rifondato il Partito e lo ha diretto e rappresentato per oltre un quindicennio, è abituato a ragionare come se ne fosse anche proprietario. Inoltre, c’è una mentalità piccina nel volere conservare una sigla, all’unico scopo di avere poi titolo a partecipare a combinazioni politiche, anche le più fantasiose (la fantasia non manca). Oggi non ci sono più né Cavour, né Giovanni Giolitti; né Croce, né Luigi Einaudi; né Malagodi, né Bozzi. Quelli erano altri tempi ed i meriti ed i demeriti di quegli uomini non c’entrano alcunché con i meriti ed i demeriti dei personaggi attuali. Da un po’ di anni a questa parte si sono visti soltanto gli accordi “politico-elettorali” con l’Associazione pensionati di Roccacannuccia, o le intese strategiche con il Movimento per l’Autonomia di Lombardo in Sicilia. Realtà misera. Altro che slancio ideale! Ed infatti la stragrande maggioranza delle persone serie che continuano a definirsi liberali si guardano bene dal confondersi con il PLI. Perché pensano che il pianeta Terra continuerà a rotare anche se l’ex deputato de Luca non riacciufferà il mandato parlamentare. Discorso che vale pure per tanti arzilli e sempre ambiziosi vecchietti che gli stanno intorno.

Un Partito non si attesta su percentuali di consenso dello zero virgola qualcosa perché gli organi di informazione faziosi non gli danno spazio. Se si dimostra incapace anche di raccogliere le firme per presentare proprie liste nelle competizioni elettorali, a qualsiasi livello di rappresentanza, di cosa si lamenta? Raccogliere le firme è faticoso, difficile, richiede capacità organizzativa, ma non è impossibile. Il giudizio però diventa di netta critica quando non si prova nemmeno a raccogliere le firme, perché, tanto, l’unica cosa che veramente interessa è rientrare in una combinazione politica con partiti già esistenti e ben strutturati.

Nella vicenda congressuale, il candidato antagonista si esprimeva in buon italiano, parlava di superamento dell’esistente per aprirsi al una Costituente dei liberali, poneva l’accento sull’organizzazione e sull’efficienza. Tutte cose sacrosante. Ma, immediatamente, mi ha fatto cascare le braccia, quando ha affermato, che bisogna subito realizzare il pareggio di bilancio «senza se e senza ma».
Ai liberali dovrebbe essere rimasto un certo amore per l’Italia. Siamo stati un Paese a sovranità limitata dal secondo dopoguerra ad oggi: i tempi della guerra fredda, della scelta di campo, laddove il nostro campo era saldamente guidato dagli Stati Uniti d’America. Ora siamo un Paese a sovranità limitata all’interno della nostra Europa.

Se si prende uno dei due Trattati che stanno alla base della costruzione europea, quello detto dell’Unione Europea (TUE), si legge all’articolo 2: «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». Perfetto, questa è l’Unione Europea nella quale vorremmo credere, portato del meglio della nostra storia.

Invece il volto concreto della UE è quello di una rete di Istituzioni in cui il Parlamento Europeo conta ancora troppo poco e tutti gli organi più importanti (Consiglio Europeo, Consiglio, Commissione) sono partecipi di un indirizzo politico che accetta in toto, senza alcun fermento critico, le ricette della politica economica liberista e monetarista e le traduce in norme giuridiche. Le istituzioni della UE non cercano di arginare lo strapotere dei mercati finanziari perché, fondamentalmente, ne condividono le logiche.
Si dirà che il problema deriva dal fatto che, al momento, tutti i principali Stati dell’Unione hanno governi con un indirizzo politico di centro-destra. Non credo si tratti soltanto di questo; abbiamo conosciuto tanti politici di centro-sinistra con un’imbarazzante subalternità culturale alla logica della destra finanziaria. Intanto, c’è una normazione che va avanti inesorabile, dai trattati, ai regolamenti, alle decisioni.

Limitiamoci a considerare il cosiddetto “fiscal compact”, ossia il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria” (sottoscritto dal presidente Monti a Bruxelles il 2 marzo scorso). Ci siamo impegnati: a) ad azzerare il disavanzo di bilancio dello Stato, già nell’esercizio 2013; b) ad avviare, immediatamente, una manovra per ricondurre il debito pubblico italiano al parametro fissato dall’Unione Europea: cioè al limite del 60 per cento del Prodotto interno lordo nazionale. Posto che oggi il debito pubblico sta al 120 % del PIL, ridurlo di un ventesimo l’anno, significa che in ogni esercizio finanziario, per vent’anni di seguito, si dovrà ridurre il debito di un ammontare pari all’attuale tre per cento del PIL.

Realisticamente, si tratta di condizioni sostenibili? La conclusione è che i nostri governanti (gli attuali ed i precedenti), hanno accettato regole socialmente e politicamente insostenibili. Perché sono pazzi, o incoscienti? No, perché credono di essere “furbi”, italianamente furbi. Probabilmente, hanno firmato con una riserva mentale; confidando che, nel corso del tempo, in alcuni Stati europei saranno eletti governi con un indirizzo diverso, di centro-sinistra. Di conseguenza, secondo loro, a breve, si potrebbero determinare le condizioni per rinegoziare, al ribasso, quegli accordi. Intanto, si tratta di tenere buoni i mercati finanziari.
Viceversa, governanti seri avrebbero dovuto dire: ci dispiace, ma anche volendo, non saremmo nelle condizioni di onorare gli impegni che l’accordo sul fiscal compact richiede da noi. Quindi, non lo firmiamo. Le cose sono due: o il Consiglio Europeo individua altre soluzioni possibili e meno drastiche, o dovrà procedere senza di noi. Con le conseguenze che insieme valuteremo.
E’ l’onestà, la linearità dei comportamenti, che rende credibili. Mai la furbizia. Anche il servilismo non è mai un buon viatico per essere rispettati.

Per quanto riguarda l’inserimento della regola del pareggio di bilancio nella nostra Costituzione, qualcuno ha letto il testo frettolosamente approvato, con maggioranza superiore a due terzi, già due volte dalla Camera dei deputati ed una volta dal Senato? L’articolo 5, in particolare, vi sembra ben scritto, chiaro, tale da non comportare problemi in sede applicativa? Non c’è bisogno di possedere la scienza di Piero Calamandrei per accorgersi che non va bene. Continuano a pasticciare con la Costituzione, facendo diventare disposizioni costituzionali mediocrissimi compromessi raggiunti in sede politica. In questo caso, sempre per fare buona impressione nei confronti dei mercati finanziari.

Abbiamo un gigantesco problema di inadeguatezza della nostra classe politica; questa inadeguatezza ha aperto la strada al governo Monti. Il quale, tuttavia, per la propria fisionomia politico-ideologica, e perché deve fare i conti con i numeri dell’attuale Parlamento, potrà fare tutto tranne che difendere gli interessi dell’Italia nel contesto europeo ed internazionale.

Cosa può fare il povero PLI, da cui eravamo partiti, rispetto a questi giganteschi problemi? Quanto meno prenderne coscienza e comprendere che non basta dirsi a favore, a prescindere, di ogni scelta operata dal governo Monti. Servirebbe oggi la collaborazione fattiva di tutte le persone di buona volontà, per individuare ricette di politica economica e regole istituzionali adatte agli attuali, specifici, problemi italiani. Certamente, a questo scopo anche i liberali potrebbero dare un buon contributo.

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