Negli Usa una nuova protesta dei tax-payers contro l’aumento delle tasse in nome della tradizione

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di Adriano Gianturco Gulisano

Centinaia di migliaia di persone in protesta contro le tasse, contro il “fisco invasore” in ben 300 città. Siamo negli Stati Uniti ovviamente, Paese noto per la tradizione di libertà individuale e indipendenza.

Cosa è successo? Il 19 febbraio un giornalista della CNBC Rick Santelli ha argomentato, in diretta, con veemenza contro la politica economica/fiscale di Obama che, tramite alte tasse e deficit spending sulle spalle dei contribuenti e dei futuri nascituri, incentiva il moral hazard: non essere previdenti e responsabili, rincorrere il rischio tanto poi “il mutuo lo paga il tuo vicino”. Santelli ha suscitato clamore, qualche plauso e ha lanciato un’idea di protesta da avverare in luglio a Chicago: un “tea party”.

Il partito del tè però non è un’invenzione improvvisa, ma ha una gloriosa tradizione ed è addirittura a fondamento della nascita degli stessi Stati Uniti d’America. Il 16 dicembre 1773, un gruppo di coloni in protesta contro il “tea act” (una tassa sul tè) ha sequestrato una nave e buttato in mare il carico di tè nel porto di Boston.

Migliaia di persone però non hanno aspettato e hanno unito le due manifestazioni, già oggi. Il movimento è spontaneo e si sta cercando di evitare partecipazioni di politici e relative strumentalizzazioni. Marciano liberi cittadini e associazioni da sempre esercito del “meno tasse, meno stato, più libertà”. Quella che Santelli chiama la “maggioranza silenziosa”. Tra questi anche l’associazione dei contribuenti di Grover Norquist, qualcosa di molto diverso da quella italiana, la Association for Tax Reform non si limita a fornire informazioni e servizi ma combatte una vera battaglia in nome dei propri membri e contro chi attua il prelievo, in difesa spesso di quei taxprotesters che, circondati dalla polizia, si barricano in casa contro il prelievo forzoso.

Certo la manifestazione di oggi è principalmente contro gli aumenti previsti dal nuovo presidente: 1 trilione di dollari in una decade, più tasse per le piccole e medie imprese, un’addizionale sull’energia di 3,100 dollari per ogni famiglia, l’aumento delle aliquote più alte (anche se l’Heritage foundation sostiene che l’inasprimento colpirà quasi tutta la popolazione) e l’idea che il fisco a stelle e strisce non sia abbastanza progressivo, mentre i dati dimostrano che gli appartenenti all’1% più ricco pagano già il 40% delle tasse e il 5% più ricco ne paga il 60%.

Contemporaneamente però è figlia di un flusso magmatico sottostante che scorre nel tempo nonostante il boicottaggio dei media e che erutta proteste come quella dell’autunno 2008 contro i bailouts, contro i salvataggi della Wall Street vicina al potere politico con i soldi della “main street” dei lavoratori; e quella sul “Giorno del Costo dello Stato” (Cost of Government Day – COGD) che si organizza per il 16 luglio, giorno in cui gli statunitensi finiscono di lavorare per lo Stato, smettendo di pagare il 53,9 del proprio prodotto per mantenere la politica.

Insomma gli Stati Uniti non sono nuovi a rivolte fiscali e c’è da giurare che i proprietari dei propri portafogli saranno vigili, le proteste continueranno e lo scontro si acuirà se i politici continueranno ad estendere la longa manus.

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