Alcuni modesti consigli al Ministro Alfano

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di Enrico Gagliardi

Non è necessario essere giuristi o comunque operatori del settore per capire quale sia lo stato delle nostre carceri: una situazione sempre più disperata e senza prospettive di miglioramento. Finito in pochissimo tempo l’effetto dell’indulto che aveva, solo in parte, “sfiatato” il sovraffollamento degli istituti di pena, si è tornati di fatto al punto di partenza con pesantissime ricadute in termini di garantismo sostanziale e rispetto dei diritti del detenuto costituzionalmente tutelati. I numeri nella loro drammatica scientificità e freddezza rendono meglio la necrosi del sistema: attualmente le carceri italiane ospitano più o meno 55.000 persone (su una capienza effettiva di 43.000), di queste poi (dato drammatico) 20.000 sono sottoposte a misure cautelari in carcere ovvero si trovano in attesa di giudizio. In altre parole, in un sistema penale come il nostro in cui vige il sacrosanto e liberale principio di innocenza fino a sentenza definitiva, vi sono individui (per un numero pari quasi alla metà del numero totale) che scontano una privazione della libertà personale senza una condanna definitiva.

In questo clima di autentica disperazione il Guardasigilli ha annunciato un provvedimento teso a ridurre il numero dei detenuti stranieri ed italiani; i primi attraverso una misura tesa a far scontare la pena residua nel paese d’origine, i secondi mediante misure domiciliari con l’utilizzo del braccialetto elettronico.

Ad uno sguardo superficiale la proposta del Ministro della Giustizia potrebbe sembrare degna di nota ma analizzando attentamente la situazione nel suo complesso e soprattutto la normativa vigente, non si può fare a meno di notarne tutte le contraddizioni patologiche che questa contiene.

Alfano ha senza dubbio avuto il merito di porre all’attenzione uno dei problemi più seri di questo paese, la situazione delle carceri che si riverbera in senso più ampio sulla cattiva gestione della giustizia italiana, ma ha fornito una soluzione inefficace se non addirittura controproducente.

La prima contraddizione è rappresentata da un dato talmente chiaro da essere quasi ovvio: la proposta del Guardasigilli è già prevista, anche se in forma diversa, da una norma del nostro ordinamento; l’articolo 15 della legge Bossi-Fini infatti prevede la possibilità per lo straniero entrato clandestinamente nel nostro paese di essere espulso, se correttamente identificato, qualora vi sia un residuo della pena da scontare inferiore ai due anni. L’unica differenza è che in tale caso non si parla di prosecuzione della pena nello stato di provenienza bensì di “semplice” espulsione.

In realtà la problematicità della proposta Alfano risiede in un altro elemento: in base alla Convenzione di Strasburgo del 1984 che disciplina la materia, occorre il consenso da parte del condannato straniero (oltre alla presenza di accordi bilaterali tra i vari stati). Inutile sottolineare come nella stragrande maggioranza dei casi tale consenso manchi. Dopotutto come convincere una persona ad essere trasferito nel suo paese d’origine dove le condizione delle carceri sono persino peggiori delle nostre?

Armi spuntate in buona sostanza. Anche l’applicazione dell’art. 15 della Bossi-Fini è particolarmente difficoltoso in ordine all’identificazione della persone e al profilo pratico dell’espulsione: una sorta di circolo vizioso dunque.

Non meno problematico si presenta l’altro provvedimento annunciato dal Guardasigilli: il braccialetto elettronico che dovrebbe poter trasformare circa 3000 detenzioni in domiciliari per i cittadini italiani con una pena residua di un solo anno. Tutte le sperimentazioni praticate con questo strumento dal 2001 non hanno mai recato risultati esaltanti ed inoltre, ostacolo non di poco conto, l’utilizzo del braccialetto elettronico prevede necessariamente alcuni accorgimenti tecnici (per esempio la necessità di un domicilio certo e di un’utenza telefonica fissa per “calibrare” la centralina del dispositivo e rendere il soggetto sempre individuabile) senza i quali non si può nemmeno iniziare un discorso del genere.

Questo tipo di difficoltà unite ai numeri drammatici sulla popolazione carceraria italiana dimostrano dunque che la chiave di volta dell’intera situazione si trova da tutt’altra parte. Ponendo attenzione infatti ai dati del Ministero della Giustizia si può facilmente comprendere come il punto di partenza di tutti i problemi sia un altro: se su circa 55.000 detenuti ben 20.000 sono in attesa anche solo di un primo giudizio, si può facilmente comprendere come il vero nodo da sciogliere sia l’utilizzo massiccio (o sarebbe meglio definirlo abuso) della carcerazione preventiva in carcere: è dalla drastica riduzione di questo strumento ed in seguito dalla sua radicale riforma che bisogna partire per una svolta veramente garantista e liberale della giustizia penale.

Altro che espulsioni e braccialetto.

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