di Elisa Palmieri
È un problema che scuote le coscienze, ma c’è un aspetto da tenere in considerazione: la morale appartiene alla vita. La nostra è una società che vanta la supremazia del “tenere in mano le redini della vita” e non fa che trovarsi davanti la morte; prolunga l’esistenza ma non sa cosa fare in situazioni sfavorevoli; corre in soccorso dell’uomo e poi ne stermina in grande quantità con ogni sorta di invenzione diabolica.
Dopo aver fatto qualunque sforzo per allungare la vita, ora si dibatte per accorciarla, confondendola con la durata della sofferenza. Il che non è affatto vero.
Al giorno d’oggi si può rimediare quasi completamente alla sofferenza, almeno quella fisica. Per quella morale non sarà certo la morte ad alleviarne il peso.
L’eutanasia è la morte provocata attraverso farmaci al fine di evitare gli spasmi di una lunga agonia. Si tratta di una “dolce morte”, indolore perchè avviene nell’incoscienza di un’apparente morte cerebrale, quando l’encefalo non evidenzia più alcuna attività (morte biologica) e le cellule degerano fino a danneggiarsi irreversibilmente condannando il paziente ad uno stato vegetativo permanente, per la quale la ragione è una sola: la pietà. Poiché il fine giustifica il mezzo, o l’azione in questo caso, molti dubitano che l’eutanasia è un delitto vero e proprio per la nobiltà dello scopo che esso implica, infatti nelle coscienze passa come un gesto liberatorio e quindi una buona azione che non dev’essere punita con l’applicazione del Codice Penale. Non è un omicidio, ma solo un’anticipazione quando ormai è certo l’epilogo del paziente al quale non c’è rimedio.
Non è forse omicidio la procurata morte di un uomo segnato da un male o una carenza insanabile a causa del quale l’individuo si sente, o è ritenuto, condannato ad un’esistenza infelice? Proprio nel momento in cui manchiamo di pietà, siamo certi di rimediare con la pietà e ricorriamo a gran voce all’eutanasia. E se fosse crudeltà.
Anziché “lasciarlo marcire, dietro sua richiesta” siamo pronti a giustificare i parenti.
Potrebbe darsi che lo stesso paziente sia indotto ad un simile ragionamento, poiché il tenore di vita insopportabile lo spinge al rifiuto e alla conseguente sospensione delle terapie. Occorre tener presente che molti malati sono sospesi in una specie di limbo che li vede in bilico tra il mondo dei malati e quello dei “sani” e pur non appartenendo a nessuno di essi, fanno parte di entrambi. Una segreta accondiscendenza li mette di fronte alla pietà dei familiari ed il loro pensiero, il loro comportamento ad alimentarne l’infelicità. Se anche in occasioni eccezionali ci sentiamo arbitri della vita non dobbiamo dimenticare che in passato dittatori hanno agito in modo analogo, preferendo “disfarsi” del fardello e, a volte, sembra siano ancora lì, nascosti dietro l’angolo pronti ad agire. Non troveremo vie di scampo se contiamo di escludere la paura di simili comportamenti, né riconosceremo la vita come il primo valore. Non ci salveremmo. Le condizioni dei malati propongono in maniera insistente il problema della loro sopravvivenza, ma soprattutto della dignità della loro persona e della qualità della loro vita, che è sacra, al di là di considerazioni emotive, umanitarie e morali, e come tale va rispettata. Vi è la necessità di equilibrare l’assistenza medica, assicurandola a tutti, e gli investimenti, affinché si intervenga a sanare i settori sanitari antiquati. Le relative spese potrebbero essere dislocate, ad esempio, da quelle militari.