Onu: delicata presidenza per il Libano

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di ANTONIO PICASSO

Con l’apertura dell’Assemblea generale dell’Onu a settembre, la presidenza di turno del Consiglio di sicurezza passerà dall’India al Libano. É un incarico estremamente delicato, quello che il Paese dei cedri sta per assumere. La storia ricorderà questo 2011 come l’anno delle grandi rivolte arabe. Il risveglio delle folle per la libertà e la democrazia. Vale a dire per quei due valori di cui Beirut si è sempre assunta la rappresentanza. Per lo meno simbolica.

Fin dai tempi della guerra civile, il Libano è considerato come il difficile laboratorio per l’introduzione di un sistema liberal-democratico anche presso il mondo arabo. Un sistema che sia genuinamente immune dalle derive autoritarie e che, al tempo stesso, sia capace di garantire la convivenza tra le diverse realtà etnico-religiose. A onor del vero, per una lunga serie di ragioni, il Libano finora non è riuscito a dare un risultato positivo a questo processo di modernizzazione. Oggi la congiuntura tra la sua presidenza al Palazzo di vetro e le rivolte della primavera araba offre un’opportunità che Beirut non può lasciarsi sfuggire. Il problema risiede negli ostacoli.

Né la Siria né Hezbollah, infatti, possono permettersi che il governo presieduto da Najib Miqati possa farsi carico delle istante dei movimenti rivoluzionari. Se così fosse, per Damasco significherebbe la fine di un’alleanza ritrovata e strategica. Ma soprattutto il regime di Bashar el-Assad dovrebbe attendersi l’inevitabile condanna, da parte delle Nazioni Unite, delle sanguinose repressioni in corso nel Paese. Un’eventuale risoluzione del Consiglio di sicurezza non potrebbe che nascere da una riunione presieduta appunto dal rappresentante diplomatico libanese. E mentre presso le cancellerie straniere – tra quelle ancora indecise (Cina e India) – si lavora per un fronte comune in opposizione ad Assad, a Beirut si percepisce una forte indecisione.

Hazbollah, dal canto suo, si troverebbe in una situazione oltremodo imbarazzante. Perché, finora, il Partito di Dio è riuscito a gestire la politica nazionale. Pur essendo una forza di opposizione, è sua la responsabilità della caduta del governo di Saad Hariri all’inizio dell’anno e sono suoi ben 19 ministri che siedono nell’attuale esecutivo. È vero, se oggi Beirut vive in una fase di delicatissima stabilità, lo si deve alle forze che fanno capo ad Hassan Nasrallah.

La così scarsa frequenza di attentati e la libertà di azione di Unifil nascono da quel crescente potere che Hezbollah ha saputo costruire, al di là delle differenziazioni confessionali. La sua identità sciita, infatti, soprattutto nel sud del Paese non è un più un ostacolo. Molti delle piccole comunità cristiane maronite si sentono protette dall’apparato militare e sociale che il Partito di Dio mette a loro disposizione. Ne è nato quindi un legame politico ben difficile da scardinare.

Possibile che tutto questo riesca a essere più solido delle ragioni internazionali? Gli analisti sono convinti che, da settembre, il Libano non potrà più permettersi di parlare in sede Onu come un singolo Stato, bensì come il rappresentante dell’intera Lega araba. Il che, di fronte alla questione siriana, cambia radicalmente la strategia che Beirut potrebbe assumere. L’attuale titubanza è dettata proprio da questo. L’alleanza tra Damasco ed Hezbollah è ben nota. Già all’inizio della repressione in Siria, era circolata la voce che ad animare le iniziative più violente vi fossero molti dei volontari sciiti, inviati oltreconfine su ordine di Nasrallah. Come pure plotoni di Pasdaran iraniani.

Del resto, il dossier Hariri – relativo all’assassinio dell’ex premier Rafiq nel 2005 – chiama in causa uomini dell’intelligence di Damasco, insieme a quattro esponenti del Partito di Dio. Questo cosa significa? Che Beirut non può permettersi di andare contro Damasco, altrimenti Hezbollah ritira la propria garanzia di sicurezza offerta finora all’intero Paese? È un’ipotesi.

Teniamo presente il fatto che il mancato attentato al giudice Albert Serhan, la scorsa settimana, è da ricollegare proprio a uomini del movimento sciita. L’attacco è stato perpetrato nel sobborgo di Antelias, a nord della capitale libanese. Si tratta di un piccolo centro abitato prevalentemente da maroniti – a pochi chilometri di distanza c’è Jounieh, la loro storica roccaforte durante la guerra civile – e soprattutto da armeni cattolici. Vale a dire la fascia di elettorato più esposta ai cambiamenti di corrente. Anche nelle elezioni del 2009 furono proprio gli armeni a fare da ago della bilancia per la vittoria del Fronte 14 marzo, che fa capo al clan Hariri. Vittoria di Pirro. Va detto per inciso. Visto che poi a dettare la linea della politica nazionale sono stati altri.

In realtà, più che il target del tentato omicidio, è interessante l’identità degli esecutori. Serhan, infatti, è semplicemente un magistrato, legato all’Hajj Center, una camera di commercio privata con sede a Beirut. Hassan Nayef Nassar e Ihsan Ali Diya, gli attentatori appunto – peraltro uccisi dallo scoppio anticipato dell’ordigno che stavano piazzando – sembra che siano legati al Partito di Dio.

Per quale motivo Hezbollah dovrebbe dare il proprio assenso a un attentato quando ha in mano le redini del potere? Se si trattasse di un avvertimento alle istituzioni nazionali e ai cristiani, per cui o scelgono di stare al gioco di Nasrallah – quindi difendendo la Siria – oppure si allineano con la comunità internazionale. Contro Damasco appunto. Ma questo provocherebbe una nuova tensione, violenta e sanguinosa, in tutto il Libano.

Il problema, tuttavia, non sta nella scelta del premier Miqati. I suoi legami a filo doppio con il Partito di Dio sono conosciuti. Senza il placet di Nasrallah a febbraio, non avrebbe ottenuto l’incarico di formare un nuovo governo. Se fosse per lui, in quanto primi ministro libanese, è chiaro che l’appoggio ad Assad sarebbe automatico. Ora, però, sono altre forze a fare pressione su Beirut. Forze straniere, altrettanto presenti lungo la Corniche ed economicamente ben più influenti del Partito di Dio. Sono le monarchie del Golfo, in particolare quella Saudita, che vogliono sbarazzarsi del regime Baath. Il loro obiettivo è sacrificare il governo siriano, decotto ed economicamente poco importante, onde evitare che la rivoluzione si espanda ulteriormente.

Quel che bisogna salvare sono i pozzi dell’Arabia saudita. Su questo Washington è sempre stata chiara. C’è anche sd dire che la Lega Araba non aspetta altro che vedere la Siria in ginocchio per fare uno sgarbo all’Iran. Che con Hezbollah ha una partnership inscindibile.
C’è quindi la longa manus della Lega araba – e soprattutto il suo portafoglio – nello spingere affinché Beirut assuma, in sede Onu, una linea di azione che la rappresenti. Lecito chiedersi se Nasrallah ne sia consapevole.

Ancora una volta, il Libano rischia di essere vittima delle proprie contraddizioni e delle incompatibilità confessionali. Il Partito di Dio stava cercando di irrobustire l’identità democratica del Paese, in quanto sapeva (e sa) che dall’elettorato può ricevere il più cristallino dei consensi per assumersi il potere a tutti gli effetti. Senza l’intralcio istituzionale, quindi, di assoggettarsi a un premier sunnita. Oggi però, promuovere la democrazia significa dare ossigeno alle proteste in Siria. Il paradosso sta quindi nella scelta, per la sopravvivenza del movimento, di una linea potenzialmente volta alla lotta armata. Com’è stato in passato.

Una linea che ha dato agio a Israele e Usa di inserire il Partito di Dio nelle loro liste nere dei gruppi terroristici. Negli ultimi anni, molti rappresentanti di Hezbollah – membri del parlamento, professionisti e uomini d’affari – si sono sforzati nel presentare un’immagine nuova del proprio movimento. Un’immagine politica secondo i parametri occidentali. Un movimento certamente non laico, ma capace di raccogliere un consenso trasversale.

Oggi tutto questo è messo a rischio, in nome dell’alleanza con la Siria. È in gioco la pace del Paese. Ha un valore questa mossa di fronte alla ragion di Stato?

pubblicato su Liberal

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