Uno Stato sulla carta

0
1140

di ANTONIO PICASSO

Tutte le formalità sono state sbrigate. Ora non resta che attendere settembre. Per i palestinesi l’appuntamento per essere riconosciuto a pieno titolo come Stato, da parte delle Nazioni unite, ormai è questione di poche settimane. Sarà un appuntamento con la storia? Sono in molti a sostenere il contrario. Le critiche più maliziose, e comunque più aderenti al vero, vedono nell’iniziativa un inutile placebo. È evidente infatti che sarà impossibile smuovere il processo di pace solo attraverso un voto dell’Assemblea generale al palazzo di vetro. Troppe volte, dal 1948 a oggi, le decisioni dell’Onu sono state accolte sulle coste del Mediterraneo come lettera morta. Perché dovrebbe adesso dovrebbe essere altrimenti?

Certo, i membri dell’Arab Peace Commitee, riuniti mercoledì in Qatar, hanno ribadito l’intenzione di appoggiare pienamente la mossa dell’Autorità nazionale palestinese. Ma questo cosa cambia? I vicini dei palestinesi, tutti arabi e in buona parte fratelli nell’Islam, non hanno mai negato a parole la legittimità di una Palestina libera, indipendente e rientrante nei confini precedenti al 1967. Tuttavia, la sostanza delle loro iniziative si è dimostrata sempre misera.

Dall’ultimo incontro, presenziato dal segretario generale della Lega Araba, Nabil al-Arabi, dal negoziatore palestinese, Saeb Erekat, e dai ministri degli esteri di Giordania, Arabia Saudita ed Egitto, si è alzato nuovamente l’indice accusatorio nei confronti di Israele. L’intransigenza del governo Netanyahu sarebbe la causa del ricorso unilaterale alle Nazioni unite da parte del presidente dell’Anp, Abu Mazen.

È una denuncia che difficilmente può essere obiettata. Proprio ieri, il ministero dell’interno israeliano ha dato il via libera alla costruzione di novecento nuovi alloggi nell’insediamento ebraico di Har Homa, fra Gerusalemme Est e Betlemme, nei Territori palestinesi. Si tratta di un ulteriore progetto di espansione edilizia in favore dei coloni, deciso a dispetto della ripetuta contrarietà manifestata dagli Usa e dalla comunità internazionale. Per l’Anp è una nuova provocazione appunto, che allontana la ripresa del negoziato.

Del resto, il clima che si sta vivendo in Israele è sconcertante. La matrice locale degli indignados ha lanciato un appello per una manifestazione di massa, che dovrebbe tenere domani a Tel Aviv. Una protesta contro l’esecutivo e la sua irresponsabilità nel seguire una linea sterile nel processo di pace. Il gioco delle parti, nella storia del Medioriente, lascia a Israele il ruolo dell’inflessibile. Trattasi di congiuntura, però. Quante volte in passato sono stati i palestinesi a precludere il dialogo?

Come contrappunto, va segnalato l’annuncio del premier della liberazione di 74 detenuti palestinesi, dopo il completamento delle loro condanne. Tra questi figura anche un esponente di Hamas eletto nel Consiglio esecutivo del’Anp, Sheick Hassan Youssef. Figura tornata d’attualità di recente, a causa delle rivelazioni della stampa sul figlio, Mosab Hassan Yusef, presunto collaboratore dello Shin Bet, i servizi di sicurezza interni israeliani.

Ma alle indecisioni di Netanyahu come si può non contrapporre le altrettanto disomogenee scelte in sede palestinese. Dalla Striscia di Gaza sulle città prossime al Negev è tornata a farsi sentire la batteria dei razzi delle milizie palestinesi. Milizie vicine ad Hamas, ma di cui molti leader dello stesso farebbero volentieri a meno. In primis perché il movimento islamista da anni sta combattendo contro se stesso per cambiare identità politica. E passare quindi dall’essere un realtà prossima al terrorismo – come è additata in molti circoli occidentali – a soggetto politico a tutti gli effetti. Secondariamente sono proprio le milizie di Gaza il vero ostacolo per Abu Mazen. Finché la Striscia resterà a una linea di combattimento, di una guerra a bassa intensità, nessun riconoscimento dell’Onu potrà bastare per giungere davvero a un termine del processo di pace.

Ultimo elemento. Non è escluso che i razzi che volano sui cieli della Striscia vengano sparati come frutto di una moral suasion, del tutto implicita, tra i due versanti del fronte. Chi ci rimette infatti dal riconoscimento dell’Anp in sede Onu? Israele, in quanto si troverebbe una comunità internazionale formalmente contraria alle sue prospettive. Questo non ha mai recato timore a Netanyahu e tanto meno ai suoi predecessori. Tuttavia, resta un ostacolo. E in una fase tanto critica, qual è quella odierna per il Medioriente, Israele non può permettersi di appesantire ulteriormente la propria immagine internazionale. Ma uno Stato palestinese, formalmente esistente, torna scomodo anche ad Hamas. Perché suggellerebbe il successo politico di un leader di Fatah, Abu Mazen, sostanzialmente mediocre.

Si ragioni, quindi, sul perché i raid israeliani su Gaza non abbiano causato vittime. Mentre i razzi sparati dalla Striscia stiano caduti in aree disabitate. È vero, i Grad hanno sorvolato ancora una volta Ashkelon e avrebbero potuto colpire le abitazioni dei civili. Com’è pure confermato che siano state prese alcune strutture delle Brigate Ezzedin Al Qassam, braccio armato di Hamas. Tuttavia, tra queste scaramucce e i precedenti ben più gravi la differenza è incolmabile. Tra i due non c’è nessuna alleanza, si sa. Solo il comune interesse di bloccare Fatah. Il che potrebbe indurre due nemici storici a rovinare i piani dell’avversario condiviso. Specie se questo cerca e trova il supporto della comunità internazionale. A settembre, la Palestina sarà forse uno Stato. Senza terra però, né istituzioni e con un riconoscimento siglato su una carta velina.

pubblicato su Liberal

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome