Karzai in difficoltà. Ucciso il sindaco di Kandahar

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di ANTONIO PICASSO

La pletora di Karzai perde l’ennesima pedina eccellente. Ieri, seguendo la prassi dell’attentato suicida, i talebani hanno ucciso il sindaco di Kandahar, Gulam Haidar Hameedi. L’attacco ha avuto successo grazie al ricorso di un mujahed che ha azionato l’esplosivo nascosto nel turbante una volta che si è trovato vicino alla vittima. Sono tanti gli elementi di analisi dell’accaduto che meritano una riflessione.
Prima di tutto, la tecnica di assassinio. Per una questione di onore e di rispetto dell’individuo, il copricapo – pakol o turbante che sia – non può essere sottoposto alle perquisizioni da parte delle forze di sicurezza. Facile quindi nascondervi una carica esplosiva. L’espediente imporrà alla polizia e alle forze Isaf di controllare con ulteriore invasività addosso alle singole persone. Il che potrà causare ulteriori incomprensioni tra la popolazione locale e le autorità di Kabul. È quello che vogliono i talebani. Affinché Karzai e i suoi sostenitori stranieri siano sempre più invisi alla gente comune, bisogna che soldati e poliziotti vadano a frugare nei turbanti e sotto i burqa. Questo provocherà rifiuti, risentimenti e tensioni.

Il luogo è altrettanto importante. Kandahar era la capitale del regime talebano durante la guerra con l’alleanza del nord. I miliziani di oggi, in concomitanza con le prime operazioni di ritiro delle forze Isaf e Nato, sperano di riappropriarsi del Paese partendo proprio dalla loro passata roccaforte. Tant’è che in queste ultime settimane, due degli tre attentati di maggiore portata – in termini di personalità eliminate – si sono concentrati in questa città. Prima si è avuto il turno di Ahmd Wali Karzai, controverso ma potente fratello del presidente, ieri è stata decapitata la leadership della municipalità. Nel frattempo i talebani si sono accaniti contro Jan Mohammd Khan, leader tribale di altissimo livello ed ex governatore della provincia di Uruzgan.
Rispetto alle altre due vittime, ma anche in confronto con il resto della classe dirigente afgana, il sindaco di Karzai era una mosca bianca. Nato nel 1947, Hameedi era il capo di una importante famiglia pashtun. Con l’avvento del regime talebano, si era rifugiato in esilio in Virginia (Usa), per essere chiamato da Karzai a gestire l’inferno di Kandahar.

Dopo l’uccisione del fratello del presidente, era il suo nome a circolare per la successione al governatorato della stessa provincia. Alcuni mormoravano pure di un potenziale passaggio di consegne alla presidenza. Hameedi era apprezzato perché sul suo conto non pendevano sospetti di corruzione, collusioni con le fazioni avversarie oppure con il narcotraffico. Cosa che invece era attribuita a Wali Karzai, con tanto di prove. Per quanto si fosse lungi dal considerare Kandahar pacificata, i suoi interventi di miglioramento delle condizioni di vita erano stati apprezzati da tutti. Strade asfaltate, giardini, cliniche e perfino moschee. Hameedi si era prodigato in un piano di ricostruzione urbanistica della città. Nel frattempo aveva definito un controllo della popolazione più rigoroso sì, ma comunque impostato sul dialogo. Difficile per i talebani impedire che un personaggio tanto capace potesse ottenere il sostegno dalla popolazione locale. Tuttavia, la goccia che evidentemente ha fatto traboccare il vaso è giunta la scorsa settimana, quando le ruspe azionate dal sindaco hanno smantellato una serie di abitazioni abusive. Nello sgombero forzato, sono rimasti uccisi due bambini. Nella rivendicazione di ieri, i talebani hanno parlato di una vendetta portata a termine contro un sindaco assassino. In realtà, la loro missione è stata compiuta in quanto Hameedi rappresentava davvero un pericolo. L’incidente dei giovani uccisi ha fatto da banale pretesto per entrare in azione.

Sono ormai due anni che Karzai è stato confermato alla presidenza. Un mandato che, sulla base delle elezioni del 2009, è madido di dubbi. Inadempienza, inaffidabilità, scarsa capacità nell’amministrare, o meglio nel creare da zero un apparato statale e infine corruzione. Queste, in estrema sintesi, le accuse che vengono rivolte al presidente afgano dall’interno e da fuori i confini del Paese. L’eventualità che a Karzai si debba trovare un sostituto – anche perché certo lui non è immune da potenziali attacchi talebani – è una costante che si intreccia nella miriade di altri difficoltà della guerra. Hameedi avrebbe fatto da valida alternativa. E comunque la sua posizione di alleato del presidente rappresentava un importante motivo di inimicizia da parte dei mujaheddin. Era stato proprio Hameedi a portare il sostegno di Kandahar, in favore di Karzai, alle presidenziali del 2009. Nel Buzkashi, il gioco nazionale afgano, tutti i cavalieri sono avversari e si contendono la carcassa di un montone. Durante la partita, si creano alleanze a scadenza. Chi è più forte ottiene l’appoggio di altri giocatori, i quali auspicano di ricavare qualcosa dalla vittoria condivisa. I senesi, con il loro Palio, potrebbero facilmente comprendere queste pratiche ataviche. In una trasposizione politica del Buzkashi, Hameedi era colui che sosteneva Karzai, nell’afferrare il montone e chiudere la partita.

Del resto quella del sindaco della città più insubordinata dell’Afghanistan è una morte che potrebbe dirsi annunciata. E forse è proprio per questo motivo che, nel 2006, Hameedi accettò con grande riluttanza l’incaricò offertogli da Karzai. L’esperienza di questi anni di guerra annovera una lunga lista di morti eccellenti. Nel 2002, il primo personaggio illustre dell’Afghanistan post talebani a essere ucciso è il vice presidente Haji Abdul Qadir. Due anni dopo, tocca a Mirwais Sadiq, ministro dell’aviazione civile, colpito da una granata Rpg mentre è in viaggio sulla sua macchina. Nel novembre 2007, i talebani riescono a eliminare in un solo attentato cinque membri del parlamento nazionale. L’attacco fa oltre cinquanta morti. L’anno dopo, cade il governatore della provincia di Logar, Abdullah Wardak. A settembre 2010, muore il numero due della provincia di Ghazni, Muhammad Kazim Allayar. Passa neanche un mese, ed è il governatore di Quntuz, Mohammed Omar, a essere centrato. A maggio di quest’anno infine, è stato il turno del generale Mohammed Daud Daud. Il bollettino si conclude appunto con Wali Karza, il Khan di Ouruzgan e Hameedi. La lista però è spoglia delle personalità di seconda categoria. Già questi nomi, comunque, sono sufficienti per dimostrare come un’eventuale classe dirigente afgana, primo passo per la normalizzazione del Paese, sia risultata impossibile da mettere in opera ben nove anni fa. Va anche detto, paradossalmente a discolpa dei talebani e di Karzai insieme, che quella afgana resta una società tribale legata alle proprie tradizioni di guerra. Tradizioni secolari, impensabili da sradicare in soli dieci anni. Soprattutto se questo periodo è stato preceduto da esperienze di conflitto altrettanto cruento.

Quel che merita una riflessione è come i talebani stiano procedendo su una linea di lungo periodo che li porterà, probabilmente, a recuperare una mezza vittoria da questa guerra. La Nato, Isaf e le forze di Kabul non hanno, evidentemente, una strategia così ben definita. Il loro progetto di pacificazione del Paese si è di volta in volta adeguato all’andamento del conflitto. Quando i talebani erano più deboli, o apparivano tali, le forze della coalizione auspicavano per uno sconto dei tempi di permanenza dei propri soldati nel teatro operativo e per un’accelerata nell’eliminare l’avversario. Con il ritorno di fiamma del nemico – sempre più frequente e oggi ormai un dato di fatto – si è arrivati a essere più morbidi nelle condizioni di resa. Si è giunti addirittura a un confronto con i talebani. Non ci si è mai resi conto che le regole del gioco le hanno dettate sempre questi ultimi. E proprio ieri, Karzai ha fornito l’ennesima conferma di questa interpretazione distorta della realtà. «Se i talebani continueranno ad attaccare nelle zone dove la sicurezza è stata trasferita alle forze afgane, vorrà dire che preferiscono che nel Paese continuerà a esservi la presenza di truppe straniere».

Quali sono le aree in cui, davvero, Kabul gestisce la sicurezza? Sulla base di quali muscoli politici e risorse militari Karzai può alzare il dito e ammonire i nemici di una recrudescenza del conflitto? I talebani stanno facendo piazza pulita degli alleati del presidente. Sia quelli presentabili, sia i più discutibili. Vedi il fratello dello stesso presidente, che aveva una rete di conoscenze dall’altra parte della barricata. Questo significa che di sedersi a un tavolo delle trattative – in vista di un chissà che tipo di compromesso – non ne vogliono nemmeno sentire parlare.

C’è da chiedersi quanto a Washington e a Bruxelles, in sede Nato, siano consci di questo dramma. A Kabul è testato che l’ostinazione prevalga sul realismo. John Allen, il generale Usa comandante di Isaf appena subentrato a David Petraues, tornato in patria per dirigere la Cia, non si è ancora espresso in merito. La Casa Bianca, del resto, è al momento concentrata su altre priorità. La linea di exit strategy non appare passibile di modifiche a breve periodo. Del resto gli Usa non possono nemmeno andare a chiedere ulteriori sforzi ai propri alleati. Solo l’Italia piange in questi giorni il suo 41esimo caduto e con difficoltà il governo ha strappato un nuovo accordo parlamentare per proseguire nella missione. L’Afghanistan, a questo punto, sta diventando sempre più un motivo di imbarazzo. Sul terreno lo sforzo bellico è risultato insufficiente. Politicamente la costruzione di una classe politica nazionale si è dimostrata un progetto perso in partenza. L’Occidente ha fallito.

Prima o poi lo ammetterà. Chi, invece, sembra non voler riconoscere la propria incapacità di governare e quindi non si spreca nell’assumere un atteggiamento meno intimidatorio è il presidente Karzai. Le sue minacce ai talebani dimostrano come l’Afghanistan sia condannato a vivere una nuova pagina di violenze tribali e claniche – i talebani non sono l’unica causa della guerra – innescate dalla war on terror di Bush.

pubblicato su Liberal del 26.07.2011

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