Cronaca dal campo palestinese di Nahr al Bared

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di Valeria Brigida

“Non penso che il nostro campo sarà realmente ricostruito: ci stanno prendendo in giro”. Per il dottor Nazer, palestinese quarantenne nato e cresciuto a Nahr al Bared, la cerimonia del 9 marzo è solo “una grande farsa da utilizzare politicamente, in vista delle elezioni di giugno”. Ore 13.30. Con un lieve ritardo viene deposta la prima pietra per la ricostruzione di Nahr alBared. Nel maggio 2007 il campo palestinese, che si trova a circa 80 chilometri a nord di Beirut, è stato teatro dei violenti scontri tra l’esercito libanese e il gruppo jihadista Fatah al Islam.

Una lotta sanguinosa che si è presto allargata ai territori limitrofi assumendo tutte le caratteristiche di una vera e propria “guerra”. Tre mesi di pesanti scontri a fuoco e bombardamenti in cui persero la vita cinquanta civili, centosettantanove soldati libanesi e duecentoventisei miliziani di Fatah al Islam. Le cifre ufficiali dell’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees) parlano, inoltre, di seimila famiglie sfollate. In tutto trentamila persone in fuga, di cui solo diecimila hanno fatto ritorno al campo. Dopo severi divieti di accesso, solo recentemente è stato permesso alla stampa di entrare nell’area devastata. Cronaca dal campo palestinese di Nahr al BaredPer accedere al campo bisogna oltrepassare un checkpoint dell’esercito libanese. Una volta superato il controllo si percorre un ampio viale di terra e fango. Sciami di bambini si rincorrono giocando. Donne sedute su sedie di plastica chiacchierano, mentre gli uomini fumano annoiati i loro narghilè. I palestinesi in Libano non hanno molti dei diritti più elementari. Neanche la possibilità di esercitare numerosi mestieri e professioni. Sullo sfondo, il grigio di palazzi sventrati. Macerie accatastate disordinatamente. Brandelli di mattoni, attaccati a spessi fili d’acciaio, penzolano immobili giù dai cornicioni. Quasi sfiorando il groviglio di automobili incenerite che ancora sostano di fronte a quelle che, un tempo, sembrano essere state abitazioni. Dai tetti, vigili come sentinelle, i soldati libanesi armati fino ai denti. Controllano che nessuno dei fotografi o cameramen presenti tentino di scattar loro foto o riprendere immagini. L’atmosfera è spettrale. Surreale. La sensazione è di essere entrati in una città fantasma. In un set cinematografico dove si è svolto un film di azione. E, invece, non c’è nessuna finzione. La realtà drammatica di Nahr al Bared appare in tutta la sua violenza e riporta alle recenti immagini di Gaza. Con una sola “sottile” differenza: al posto degli israeliani, qui, ci sono i libanesi. La storia di questo campo è stata ignorata, o forse presto dimenticata, dall’opinione pubblica occidentale.

Tutto ha avuto inizio quando, secondo le fonti ufficiali, membri appartenenti a Fatah al Islam cercavano di prelevare illegalmente del denaro da un istituto bancario di Tripoli. L’esercito libanese ha reagito cercando di contrastare queste azioni. Ma il risultato è stato l’inizio di un confronto armato sfociato in tutta l’area. E Nahr al Bared si è trasformato nell’arena centrale di una lotta in cui il Libano ha inizialmente dimostrato la sua debolezza nel ripristinare l’ordine di fronte a un gruppo armato più piccolo, ma ben organizzato. Le origini del movimento jihadista Fatah al Islam sono incerte. C’è chi sostiene che, a partire dal 2006, mirasse a stabilire un emirato islamico nel nord del Libano. Membri del movimento politico “14 Marzo”, invece, sono convinti che dietro ci sia una regia siriana per la destabilizzazione del paese e del tribunale internazionale incaricato di far luce sull’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri. Gli alleati della Siria, al contrario, ritengono che dietro al gruppo ci siano proprio l’Arabia Saudita e il Future Movement, nel tentativo di formare una forza anti-sciita ed eseguire operazioni anti-siariane. Non manca, infine, chi sostiene che l’obiettivo di Fatah al Islam sia la creazione di una base jihadista nel nord del Libano per addestrare miliziani nel commettere azioni contro gli Stati Uniti e i suoi alleati in Iraq e Afghanistan. “Una cosa è sicura – afferma una giornalista di Al Jazeera – potenzialmente la maggior parte degli attori politici libanesi hanno interesse nell’esistenza di una simile organizzazione”. Superati i primi cinquecento metri di “poltiglia urbana”, si arriva al secondo checkpoint.

Qui, possono accedere solo gli invitati alla celebrazione per la deposizione della prima pietra per la ricostruzione. La cerimonia, fortemente voluta dal primo ministro Fouad Siniora, ha inizio solo quando sono tutti presenti. C’è Abbas Zaki, ambasciatore dello Stato della Palestina a Beirut, Jean Kahwaji, in rappresentanza del comandante dell’esercito libanese, il direttore generale dell’UNRWA in Libano. Non manca neanche l’ambasciatore italiano Gabriele Cecchia. Per la ricostruzione di Nahr al Bared sono stati richiesti 455 milioni di euro. Di questi ne sono arrivati solo circa 120 milioni. Di cui 5 milioni, da parte dell’Italia, uno dei maggiori donatori europei. È un attimo, e il masso, che dovrebbe rappresentare simbolicamente “la prima pietra”, scompare e viene inghiottito da fotografi e cameraman. Quella a cui si assiste sembra una surreale sfilata di celebrità su una passerella fatta di macerie. Unico elemento di disturbo sembra essere un forte vento che, soffiando, solleva grandi nubi di polvere. Ha inizio la conferenza. Il ministro dell’Informazione libanese, Tarek Mitri, è visibilmente imbarazzato. Serio. Sembra essere uno dei pochi a capire che quella in cui si trova non è una festa. Lontano dai flash e dalle videocamere si avverte uno strisciante malcontento popolare. “Siamo considerati i nemici: Gaza era qui, prima ancora che ci fosse Gaza!” grida Abu Ettayeb, palestinese di 65 anni, nato ad Haifa, oggi villaggio nel nord di Israele, e arrivato come profugo a Nahr al Barednel 1949, all’età di quattro anni. “Perché hanno distrutto il campo? La domanda va fatta al primo ministro, al Capo dell’esercito libanese – sostiene Abu Ettayeb, continuando – vogliamo che sia istituito un tribunale internazionale anche per quel che è stato fatto qui”. “In altri paesi un ministro della Difesa si dimette per un semplice incidente aereo.

Qui in Libano, invece, più si uccide, più si vincono stellette da attaccare sulla propria uniforme, più si fa carriera politica!”. Aldilà dell’area dedicata alla celebrazione sostano centinaia di palestinesi: i bambini si aggrappano al filo spinato presieduto dai soldati. Dietro di loro, i volti arrabbiati degli adulti. Qualcuno inizia a urlare l’odio contro l’esercito libanese, ritenuto responsabile della distruzione del campo. In pochi minuti, le frasi si trasformano in slogan. Le voci si tramutano in grida. In un attimo si arriva allo scontro. I soldati aprono il fuoco: sparano in aria. Poi iniziano a puntare i civili. Arrivano i carri armati. La stampa non c’è: è impegnata nelle interviste ai politici. Solo noi siamo lì: gli unici testimoni. Finchè un militare ci raggiunge, cerca di prendere la macchina fotografica e urla: “Vai via: questa è una questione tra libanesi e palestinesi”.

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