Questione religiosa, questione liberale

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di DOMENICO BILOTTI*

La Chiesa Cattolica, principalmente nei Paesi in cui minore è il suo insediamento, è al centro di una serie di attacchi e attentati che difficilmente si erano visti negli ultimi decenni. Difendere i diritti di libertà significa difendere anche la libertà di coscienza e quella di religione (nozioni che è scorretto, e pericoloso insieme, confondere). La libertà religiosa comprende, al proprio interno, tanto la possibilità di essere atei e far del proprio ateismo un valore che si intende difendere e propagandare, quanto l’ortodossa obbedienza a dogmi e precetti che vengono da una confessione organizzata -a patto che l’attuazione di entrambi questi estremi non crei nocumento all’esercizio dell’altrui diritto di libertà. Se, durante le celebrazioni natalizie, Papa Benedetto XVI ha tanto ardentemente difeso il diritto di libertà religiosa, non può che far piacere: per la Chiesa di Roma, il pluralismo religioso come condizione meritevole di tutela è acquisizione recente. Ateismo e pluralismo sembravano, per diverse ragioni, essere errori: errori gravi che la buona fede non riusciva a scriminare completamente. Questa evoluzione dottrinale è positiva e sembra in linea con le esigenze delle democrazie liberali. Parlare di strumentalizzazioni è, però, opzione altrettanto sicura e, pur con argomenti meno raffinati, altrettanto difendibile: il Cattolicesimo ha avuto una condotta offensiva, nei confronti della diversità religiosa, finché ha avuto la forza e il consenso per poterlo fare; quando la sua centralità formativa è saltata, è dovuto correre ai ripari. Certamente: se nel mondo vi fossero sei miliardi di fedeli cattolici o, al più, cristiani, il Soglio Pontificio non avrebbe la stessa esigenza di proclamare la libertà religiosa. Quella dei fedeli cattolici, o, più genericamente, cristiani, infatti, non risulterebbe minacciata. Nella situazione attuale, invece, questa minaccia, alle periferie del sistema di governo occidentale, sembra ben più concreta e visibile. Perché fondamentalismo a danno delle minoranze e pretesa integrità dottrinaria, all’interno della propria cerchia, costituiscono le facce simmetriche di una stessa medaglia.

Un atteggiamento similare aveva riguardato il tema, affine ma non sovrapponibile, della libertà di coscienza. La Chiesa aveva storicamente avuto un atteggiamento sospettoso verso l’obiezione di coscienza. Finché le norme statuali somigliavano, in modo quasi decalcomaniaco, alle rationes ispiratrici dei precetti confessionali, obiettare al comando di legge poteva, in ultima analisi, significare la disobbedienza a norme che avevano lo stesso retroterra giuridico-culturale delle imposizioni religiose. A poco vale la citazione evangelica sulla sfera di Dio e la sfera di Cesare: può anche risalire a quella massima di Cristo il principio di separazione degli ordini, ma bisognerebbe capire come debba atteggiarsi nella società post-moderna e, ancor più, quali siano le condizioni per attuarlo. Al di là di questa osservazione pragmatica sull’elaborazione del precetto, l’obiezione di coscienza, sotto la specie dell’obiezione di coscienza religiosamente motivata, è divenuta una risorsa politica per attestare la rappresentazione del Magistero nella società: obiettare a norme che hanno contenuto, almeno apparentemente, incompatibile rispetto agli insegnamenti di matrice ecclesiale, significa, in ultima analisi, premiar la ragion di Chiesa a discapito della ragion di Stato. Episodi di questo tipo sono da moltiplicare in tutti quegli ambiti ove sia possibile (fecondazione, contraccezione, diversificazione delle relazioni familiari). Impostare il conflitto in termini di questo tipo consente di scartare a priori i modelli di laicità indifferentista, rigidamente separatistici, come quello francese. Anche questo è un errore: per concepire un modello di liberalismo inclusivo, è necessario vagliare attentamente e nel profondo ciascuno di quelli disponibili nella realtà storica presente. Non si possono avanzare proposte di politica legislativa senza avere una cognizione, il più possibile aderente al vero, dell’ordinamento giuridico esistente.

Può dirsi, inoltre, che l’invocazione pro libertate di una Chiesa sofferente è necessaria (necessariamente funzionale) anche su un livello meramente mass-mediologico. Un’affermazione del genere è abbastanza capziosa: dice più di quanto sembrerebbe sostenere, denuda le intenzioni di chi la pone in essere -la crisi della gerarchia giustificherebbe il dileggio provocatorio contro ogni sua posizione. Appare, però, innegabile come Benedetto XVI stia cercando di portare avanti delle politiche di austerity, almeno sul piano formale e simbolico, che sperano di compattare il frammentato mondo dell’esperienza cattolica contingente. In alcuni casi, questo atteggiamento ha causato più spaccature che unità: basti pensare alla liberalizzazione della Messa di rito tridentino, che ai più è parsa la ricostituzione di una modalità liturgica ormai sorpassata (ad altri è sembrato, al contrario, un ottimo strumento per ritornare a una ritualità più stabile e durevole: e questo era l’effetto auspicato). In altri casi, invece, il plauso alle decisioni vaticane è stato perlopiù acritico. La recente riforma dell’amministrazione finanziaria, nel segno del contrasto a forme di riciclaggio e di promozione di prassi di trasparenza, dovrebbe esser vista nei suoi risultati: le sue intenzioni non sono sufficienti a cancellare il generale sospetto verso le modalità di investimento dello -e nello, e per lo- Stato Città del Vaticano. È, altresì, indubbio il generale apprezzamento nei confronti dei motivi addotti dalla Chiesa per giustificare la sua azione riformatrice. Lo stesso succede, a un livello amplificato dall’attenzione giornalistica e dalla gravità umana dei fatti, nel caso della pedofilia: prevedere un inasprimento sanzionatorio, condannare pubblicamente i gesti insani, stabilire nuove modalità procedurali e sostanziali per far valere e reprimere episodi di violenza sessuale contro i minori, è un tipo di intervento che, sulla carta, non può esser criticato da chicchessia. Ma sarà nella collaborazione leale con le autorità giudiziarie, nazionali e internazionali, che questo approccio andrà messo alla prova. È con l’ausilio prestato alla giurisdizione penale che si realizzano le condizioni di una separazione degli ordini non escludente, ma cooperativa, non dogmatica, ma liberale.

Per tali ragioni, che ovviamente non riguardano soltanto la Chiesa Cattolica, la questione religiosa è ancora oggi questione di libertà. Invocare il divieto incondizionato a indumenti di carattere sacramentale, per le confessioni diverse da quella cattolica, sembra insostenibile. La tutela della libertà individuale deve anticipare la pretesa di non aggressione all’ordine pubblico: il limite dell’identificazione personale dovrebbe, in altre parole, essere più che sufficiente come limite oggettivo alla vestizione personale. È lo stesso argomento che viene utilizzato per perorare il contrasto alle mutilazioni genitali femminili: la repulsione verso lesioni a donne che non hanno espresso alcuna volontà in tal senso e che difficilmente possono esser consce delle controindicazioni mediche di tali prassi. Queste si combattono con la prevenzione e l’integrazione, prima che con rivendicazioni di politica criminale a dir poco draconiane (ad esempio: davvero illiberali ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del minore, che anche irregolarmente si trovasse sul territorio dello Stato, escludendo ogni ipotesi di scusabilità dell’ignoranza della legge penale nazionale). La varietà prospettica deve informare indefettibilmente il dibattito ius-religioso, come insegnavano, nel tema dei costumi e degli usi giuridici, le Lettere Persiane di Montesquieu: la tendenza religiosa maggioritaria in un dato Paese è sempre più spesso ghettizzata e minoritaria in un altro. Forse la soluzione tipica del diritto internazionale liberale e consuetudinario, il principio di reciprocità, sembra soluzione datata, formatasi in secoli di ben diversi interessi geostrategici trans-nazionali (colonie, conquiste, imperi, conflitti bellici), ma tanto chiacchiericcio presente, tra finto buonismo e nuovo autoritarismo, ha dimenticato persino di attuare quella soglia che ritenevamo minima, scontata, inequivocabilmente legata alla convivenza civile, anche tra Stati di diverso regime giuridico-istituzionale.

*aliberalpost.splinder.com

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