Google & C. chiedono un web neutrale, ma chi sborserà 140 miliardi per allargare la banda?
Piercamillo Falasca
Da qualche anno ferve nel mondo, in particolare negli Stati Uniti, un dibattito insieme ideologico e specialistico, quello sulla cosiddetta “net neutrality”, la neutralità di Internet. Come tutte le dispute ideologiche, è spesso mal posta. Essendo molto tecnico, poi, il problema non sembra ancora interessare il grande pubblico. Eppure parliamo di una questione di importanza vitale per i prossimi decenni, che riguarda il funzionamento del mercato e la spinta all'innovazione e allo sviluppo tecnologico che sarà possibile imprimere in futuro. Per i sostenitori della neutralità, la rete intesa come infrastruttura dovrebbe assicurare – anche per legge – parità di trattamento (qualità e velocità) a tutti i contenuti che viaggiano su di essa, indipendentemente dal fornitore di queste informazioni.
In teoria non ci sarebbero obiezioni. D'altronde, finché Internet era essenzialmente una rete attraverso la quale inviare email e consultare pagine web, ciò non aveva alcuna controindicazione. Oggi, con l'affermazione e l'ascesa di applicazioni che consumano molta banda – il download di musica e video, i giochi online e, soprattutto, la telefonia su Internet (Voip) – e con l'aumento esponenziale del traffico di dati, gli effetti di medio periodo della net neutrality rischiano di essere poco allettanti.
Un esempio può rendere l'idea: quanto conviene alle compagnie di telecomunicazioni investire in una infrastruttura migliore di quella attuale se, di fatto, la maggiore ampiezza della banda verrà “mangiata” – senza che esse possano opporsi – da applicazioni che non pagano per questo servizio offerto? Molto poco, anzi praticamente zero se consideriamo che i soggetti più affamati di banda sono anche concorrenti delle compagnie sulla telefonia. Le telco sono disposte ad investire, ma ad una condizione: che ci guadagnino. Non sono “cattive”, rispondono ai loro azionisti e alla loro domanda di profitto. Il giusto incentivo all'investimento da parte delle compagnie deriverebbe dalla possibilità di poter richiedere ai clienti un prezzo maggiorato per la trasmissione di alcuni contenuti, come i video, o per alcuni servizi, come il Voip, in cambio di una maggiore velocità e qualità rispetto alla banda normale.
Ancora, potrebbero voler richiedere ai fornitori di alcuni servizi – ad esempio Youtube o i servizi peer-to-peer – il pagamento di un “canone” per accedere alla corsia preferenziale.
In un regime di assoluta net neutrality, le telco sarebbero costrette ad offrire a tutti l'accesso alla banda, senza condizioni o corsie preferenziali. Di fatto, le compagnie sceglierebbero di non investire o di ridurre notevolmente i loro investimenti.
Eppure lo sviluppo infrastrutturale della banda larga è vitale per il futuro di Internet, per evitare che l'aumento dei dati ogni giorno scaricati, caricati, trasmessi, intasi irreversibilmente la rete. Il rischio di exaflood, come viene chiamata in gergo l'ipotesi di saturazione dell'autostrada virtuale, non è così remoto: Youtube non esisteva nel 2005, oggi dal sito vengono scaricati più di 100 milioni di video al giorno, per un consumo di banda pari a quello usato nel 2000 dall'intera popolazione di internauti; il 50% dei dati scambiati on-line si riferisce ad applicazione peer-to-peer; nel 2006 abbiamo creato 161 exabyte di informazioni digitali che – secondo alcune stime – potrebbero diventare 988 nel 2010.
Insomma, la dilatazione dei consumi può seriamente mettere in crisi la sostenibilità della Rete. Un intasamento rallenterebbe i servizi per tutti, a partire proprio dalle applicazioni più “affamate” di banda, mettendo a repentaglio lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi che richiedono sempre maggiore velocità di trasmissione dei dati. Per evitare questo downgrading della qualità e della velocità sono necessari investimenti ingenti, che qualcuno ha calcolato in circa 140 miliardi di dollari su scala globale. La net neutrality, se imposta per legge, frenerebbe questi nuovi investimenti. Quale fondo di private equity supporterebbe un investimento sull'infrastruttura della banda larga se la neutralità della rete fosse imposta da una legge dello Stato o da una direttiva europea? Nessuno, purtroppo, come in più di una occasione hanno affermato gli analisti dei fondi stessi.
I sostenitori della neutralità (tra questi, molte associazioni di consumatori o giganti come Google o Yahoo) puntano il dito contro il rischio di restringimento della concorrenza: le telco, si dice, potrebbero decidere di bloccare e rallentare alcuni contenuti o che possano decidere di offrire – con una velocità ed una qualità maggiore di quella dei concorrenti – dei servizi propri. Il rischio paventato, per intenderci, è che Telecom decida di lanciare un'applicazione concorrente a Skype e migliore di Skype, perché transitante su una corsia preferenziale. Ma ad una obiezione del genere non si può che rispondere “classicamente”: le minacce alla libera concorrenza devono essere contrastate da un buon sistema di antitrust, non da interventi regolatori ad hoc.
Ma come dicevamo all'inizio, la questione della net neutrality ha assunto caratteri ideologici: l'idea che si possa richiedere ai consumatori o ai soggetti fornitori di applicazioni internet di contribuire allo sviluppo delle instrastrutture della banda larga – offrendo loro, in cambio, migliore qualità – è passata per essere un attentato alle libertà individuali. Chi parla di net neutrality evoca il rischio di una rete alla “cinese”, di operatori che bloccano contenuti politici o religiosi, di aumento del divario digitale tra ricchi e poveri.
Argomenti importanti, ma lontanissimi dal problema in questione. Nessuno auspica restringimenti da parte degli operatori di rete ai contenuti cui un utente può accedere, se non quelli illegali, o mette in discussione la libertà di stampa e di informazione. Più che concrete obiezioni, quello sulla libera concorrenza o sul rischio “politico” della non-neutralità, sembrano tentativi di “buttarla in caciara”. Le compagnie telefoniche hanno tutto l'interesse ad avere una rete quanto più aperta e ricca di contenuti possibile.
Come ogni regolamentazione eccessiva (questa volta mascherata da un nome apparentemente liberale) la neutralità della rete limiterebbe gli spazi di azione delle imprese e del mercato, riducendo gli incentivi all'innovazione e ponendo un serio limite alle possibilità di scelta dei consumatori, ossia proprio quei soggetti in nome dei quali la battaglia sulla neutralità pare essere combattuta. Mutatis mutandis, la net neutrality ha argomenti simili a coloro i quali chiedono la collettivizzazione dei brevetti farmaceutici delle società produttrici di farmaci, dimenticando che questo provocherebbe la fuga dei capitali dal settore: chi investe dove non c'è remunerazione?
Negli Stati Uniti, l'affascinante quanto sbagliata campagna pro-neutralità ha trovato severi e inaspettati oppositori, a partire da Bob Kahn, l'inventore del protocollo TCP/IP (ossia, di Internet). Net neutralità, per Kahn, è uno slogan dogmatico che significa «niente di interessante può accadere dentro la rete». Per l'Italia, dove la discussione sul tema non si è ancora accesa, è importante che non prevalgano argomentazioni ideologiche e si guardi alla sostanza delle cose. Il nostro paese non può permettersi freni alla crescita e all'innovazione
Per gentile cortesia dell'autore, il pezzo è stato pubblicato su Libero Mercato