Giornali americani: che disastro!

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di Oscar Bartoli

Walter Isaacson, ex direttore generale di Time, ha scritto su questo periodico un lungo articolo che analizza la situazione di disfacimento dell’industria giornalistica americana. Henry Luce , il cofondatore di Time, era solito dire che una pubblicazione si regge sopra tre gambe: le vendite in edicola, gli abbonamenti e la pubblicità. Ma negli ultimi anni i giornali hanno basato la loro esistenza solo o prevalentemente sull’advertising. E quando le inserzioni pubblicitarie sono diminuite a causa della crisi economica, sono andati o stanno andando in malora.

Secondo Isaacson l’unica soluzione di sopravvivenza sta nel ‘micropayment system’, ovvero nella possibilità che per ogni collegamento in Internet con un sito l’utente sia addebitato di qualche centesimo al minuto.

L’autore dell’articolo porta ad esempio il caso del Wall Street Journal che fa pagare una sottoscrizione alla sua edizione in Internet. Chi scrive è uno degli abbonati al Wall Street Journal online, anche se il sottoscritto non ne condivide l’impostazione politica di fondo che considera iperconservatrice. Ma è la qualità dei contenuti che fanno di questo giornale sia nell’edizione su carta che in quella elettronica uno dei migliori esempi di giornalismo.

Conclusione: può darsi che la via d’uscita dalla crisi della carta stampata possa essere il pagamento a minuto per la consultazione dei siti elettronici delle testate.

Ma la decisione finale spetta al consumatore che anche in questo caso sceglierà quei media che si distinguono dalla concorrenza per il valore aggiunto che offrono.

Resta da dire infine che circola con sempre maggiore insistenza la voce che gli imprenditori stiano approfittando delle evidenti incertezze del mercato per ridurre drasticamente gli organici e le spese, forti del fatto che negli Stati Uniti i sindacati non contano alcunché, quelli che esistono sono in massima parte gialli e che, in un momento come l’attuale, è sempre più difficile alzare le barricate per la difesa dei posti di lavoro che vengono perduti ad un ritmo di seicentomila ogni mese.

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