Competitivi per decreto

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di STEFANO PIETROSANTI

Gobetti, nel mai abbastanza letto “La Rivoluzione Liberale”, dichiarava che, davanti alla generazione dei padri, i giovani che in seguito sostennero la prova capitale della lotta contro il fascismo si trovavano in una strana situazione di inversione: a sentirsi i padri dei padri e i difensori della casa – come assieme di norme, forme organizzative, portati culturali – alla cui sorte i padri sembravano incapaci di badare.

In maniera per ora meno tragica, sembra oggi riproporsi la stessa questione: un profondissimo decadimento, una sorta di incoscienza riguardo le basi culturali e i saperi che sarebbero necessari a una persona che voglia partecipare attivamente al governo di uno stato, sembrano caratterizzare la maggioranza degli uomini e delle donne implicate nella gestione del potere pubblico. Per fare un esempio, mi è recentemente capitato di ascoltare per due volte nella stessa serata, in bocca ad esponenti della maggioranza, la frase “la priorità del paese è fare le riforme per ridare competitività alle imprese”.

Come si può ottenere la competitività per norma?

Nel caso si intenda per competitività il semplice dato del prezzo dei beni prodotti, allora la frase può voler dire: non essendoci modo di agire (per fortuna, dato che ci abbiamo guadagnato l’euro) sul tasso di cambio per via monetaria, l’unica via è abbassare le remunerazioni dei fattori produttivi, nello specifico dei lavoratori abbassandone i salari, o degli investitori abbassandone i profitti. Questo è un risultato che notoriamente non si ottiene per norma, con le tanto mitologiche “riforme”, a meno di non essere in uno stato dichiaratamente dirigista. Al massimo la politica può cercare di aiutare una soluzione condivisa tra le parti sociali, tentando di moderare le contrapposte richieste di salario e profitto.

Può anche intendersi la competitività del sistema produttivo come, poniamo, “agilità”, possibilità di contare su un ordinamento fiscale che non sia punitivo e illogico per la libera intrapresa. Sicuramente in questo ambito si può agire per norma, così si spera che nel federalismo fiscale si comprenda un ridisegno del sistema impositivo che ad esempio preveda la cancellazione dell’Irap, più una vergogna che una tassa, ma è anche vero che questa comincia a divenire una promessa vecchia di anni e mai mantenuta. E’ oltretutto sospetto non ricordare lo scarso margine di movimento del decisore pubblico in un momento di crisi internazionale, mancanza di fiducia dei mercati verso i debiti nazionali, rischio sistemico per l’intero continente. Si può ridisegnare il sistema di imposizione, ciò può, nel lungo periodo, avere importante effetti sistemici, ma è difficile sostenere che – in questo momento – si possa fortemente alleggerire il carico, e comunque non voglio nemmeno considerare i così detti “costi del federalismo”, su cui tanti hanno riflettuto e rispetto ai quali molte domande rimangono inevase.

Certo, scarto l’opzione interpretativa “deregolamentare ulteriormente il mercato del lavoro per abbassarne il costo”, perché credo sia chiaro che il salario base medio di un neolaureato ordinario (laurea triennale) flotta attorno alla paga di una badante irregolare.
Fino a qui avremmo davanti una certa impreparazione economica, purtroppo – continuando il ragionamento – è difficile non pensare alla malafede.

Bisogna analizzare un altro significato della parola “competitività” nei discorsi di questi signori: la competitività del così detto sistema-paese, che non si limita alla sua capacità di produrre complessivamente merci e conoscenze utili a prezzi accessibili, ma comprende la capacità della nazione di proporsi come insieme di valori, capacità, cultura, pratiche, così buono da invitare altri a replicare la nostra esperienza, a prendere spunto da noi nell’affrontare le problematiche di gestione poste da una comunità democratica.

Certo, questo è un risultato che si può ottenere tramite una grande stagione di riforme, che potrebbe portare vantaggi anche, nel lungo andare, al sistema produttivo, ma per prendere questa strada servono alcuni presupposti che mancano evidentemente al momento, primo tra tutti un orizzonte ideale all’azione politica. Una grande stagione di riforme, ossia di chiare, nette ridefinizioni legislative che diano un taglio con ciò che non va nel passato, nasce da un pensiero – di qualunque parte politica esso sia – che abbia una chiara, comprensibile idea di un domani che tutti, non pochi appartenenti a gruppi di potere, si potrebbero augurare. Il bene che farebbe, lo farebbe prima di tutto il clima che si respira in un paese quando questo ha la franca intenzione di rifondarsi, di rinunciare ai cinismi, alle piccole posizioni di interesse. Il primo, il più evidente e fondamentale vantaggio del periodo della riunificazione per la Germania, che tanti sforzi è costato ai tedeschi, non lo si ricerca nei decreti e nelle leggi che lo hanno attuato, ma nello spirito che animava quelle azioni: un popolo intero che riprendeva fiducia in se stesso e una politica che pensava i canali per permettere questo processo.

Dove lo vediamo questo grande sforzo ideativo? Al governo c’è una forza personalistica appoggiata a un partito blandamente separatista, all’opposizione una compagine mal raccolta che, in piena crisi della maggioranza, non riesce ad esprimere chiaramente nemmeno il candidato premier.
Mi è difficile rimanere serio quando personaggi di una classe politica che, tranne sparute eccezioni, si compone della seconda linea di gruppi di potere spazzati via dalla storia e dalle inchieste degli anni novanta, millantano il racconto mitico della “grande stagione di riforme”. Soprattutto se hanno tolto il lenzuolo di liberalizzazioni timidamente teso dal precedente governo per sostituirlo col niente, ossia con la spiacevole forma di un mercato troppo spesso semi-corporativo.

Ecco la fine dei teorici del post-ideologismo, del fare senza pensare, dei signori “affrontiamo i problemi pratici, tanto le chiacchiere non servono a nulla”: la più totale stasi. Ecco i profeti della morte di destra e sinistra: senza più una stella polare, concrezioni di interessi che hanno difficoltà a riconoscersi persino allo specchio.
Certo, sto volutamente esagerando i toni, ma trovo veramente difficile e quasi insano non indignarsi davanti a certe manifestazioni – mi correggo – più che di malafede, di mancanza di fede, di fides, d’affidabilità, quella particolare qualità dell’uomo politico che ricordi come la parola non sia un urlo di guerra, ma un veicolo di senso e che usarla senza riflettere, senza pesare, vuol dire sfasciare la democrazia alla sua base, rendendo impossibile, falso, il dialogo.

Fortunatamente, la nascita di gruppi un po’ più ragionati e l’emergere di voci che almeno tentano un vero sforzo di pensiero si constata sia nella maggioranza che nell’opposizione. Farefuturo pare coltivare un’idea di destra civile ed europea, Vendola sembra lavorare a una sinistra che ritrovi una bussola entusiasmante e tante voci giovani nel PD si dimostrano in qualche modo alla caccia di una loro via, magari meno populista, seppure sempre alla sinistra. Questi sono esempi per ora da verificare, ma in generale tutte le forze che vorranno rappresentare la fetta di questo paese che inizia ora a vivere, lavorare, impegnarsi, partecipare, hanno davanti il compito di un terzo risorgimento: il primo ha fatto l’Italia, il secondo l’ha tirata fuori dalla follia nazi-fascista, il terzo dovrà salvarla dal pantano e chissà, volendo pensare al futuro migliore, dare la spinta per la definitiva integrazione di questo continente che è la vera, unica casa di tutti noi. O almeno provarci.

Ci faccia da pungolo l’osservare come, oggi, sembra quasi troppo sperare che qualcuno venga illuminato dal comprendere che più di un milione di codicilli potrebbe, nel dare fiato al sistema produttivo, una “dichiarazione di guerra” alla forza estranea che tra noi vive e troppo spesso prospera: il vario assieme dei potentati criminali, causa di un’infinita serie di inefficienze, dal mercato del credito al rifornimento delle piccole botteghe. Per tacere dell’indegnità di ospitare una Palestina a bassa intensità davanti la porta delle nostre case.

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