All’università serve competere

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di PIETRO PAGANINI*

La competizione è la via migliore per far emergere il merito. La competizione non è la sopraffazione del più forte sul più debole, o l’assenza di regole. La competizione esiste, al contrario, proprio quando ci sono le regole – quelle essenziali, non oltre – che garantiscono eguali opportunità in partenza. Quelle opportunità di partenza che assicurano una competizione equa, permettendo agli individui di esprimere la propria diversità. La competizione genera un vantaggio condiviso tra tutti i partecipanti. La competizione è una delle variabili fondamentali della Società Aperta.

Il dramma dell’università italiana non si risolve con regole complicate, ma liberando la competizione. Il Decreto appena passato in Senato muove nella direzione giusta, è coraggioso, ma non abbastanza, non tocca il problema centrale o meglio cerca di aggirarlo. D’altronde il dibattito sul tentativo di riforma non è stato d’aiuto. Non avrebbe potuto essere diversamente in un paese dove il metodo Liberale non è costume. Ci si è arroccati sull’idea che il centro, cioè lo Stato etico e i suoi burocrati, possano trovare la formula perfetta per i “sudditi” meritevoli. Un esempio su tutti: la discussione sull’età di pensionamento dei docenti è tanto imbarazzante quanto sintomatica. Piero Ostellino è tra i pochi a distinguersi, infatti la sua è una ricetta Liberale: non ci sarà mai una riforma perfetta che risolverà in breve i problemi dell’università italiana. Questo è impossibile. Servirebbe invece una riforma perfettibile il cui scopo è esattamente quello di creare competizione con poche regole essenziali. Tale riforma deve però prima di tutto risolvere il problema di creare un ambiente, un mercato, veramente competitivo. Oggi non è così.

Prima di tutto, occorre abolire il valore legale del titolo di studio. Già nel 1947, un vero maestro Liberale, Luigi Einaudi, sosteneva che il primo passo per riformare la scuola italiana e liberare la competizione è abolire il valore del titolo. Senza questo passaggio qualsiasi tentativo di riforma sarà quasi nullo o produrrà risultati poco confortanti. Eppure sembra una montagna invalicabile. Per molti non è il vero problema, e sbagliano. Non sono interessati a garantire libertà e competizione, ma a garantire un valore assoluto, il merito. Per ottenere il merito quindi, si scervellano per trovare la formula magica. Il merito non è un valore morale, ma una semplice conseguenza della competizione. Come può un’università, un corso di Laurea o un docente essere riconosciuto come il migliore, se non c’è competizione, se il valore del titolo equipara tutti e tutto? Per altri l’abolizione del titolo è un attentato all’eguaglianza. Per questi ultimi la competizione genera diseguaglianza. Stiano tranquilli, è esattamente il contrario, perchè una volta competitive le università migliori ricercherebbero talenti e studenti migliori a prescindere dal reddito di partenza. Piuttosto è il sistema attuale, imbrigliato, che genera diseguaglianze negando ai meritevoli di qualunque fascia sociale di esprimere talento e diversità.

Che senso hanno i concorsi? Università libere di competere sono libere di scegliere i propri docenti, giovani o anziani, bravi o incapaci. A loro volta, docenti e ricercatori saranno liberi di scegliere verso quale Università indirizzarsi. Per farlo dovranno esprimere il meglio. Non dovrà essere lo Stato a scegliere, tramite regole bizantine.

L’università non dovrà più essere inoltre una realtà a se stante, ma fortemente calata nella realtà sociale ed economica del paese. Per questo gli istituti di credito dovranno annoverare tra i propri servizi la possibilità di finanziare la carriera universitaria degli studenti che ne fanno richiesta, oltre che l’acquisto di case, auto, barche e calciatori. Imprese grandi e piccole dovranno smettere di lamentarsi della situazione disastrosa delle accademie, cominciando a collaborare proattivamente con quei corsi e dipartimenti che si dimostreranno più interessanti. Solo così l’Università potrà rispondere “ai bisogni concreti del mondo”.

Non è così difficile. Abbiamo due modelli dinamici davanti a noi, da cui imparare, quello anglosassone americano e quello scandinavo. Sono modelli che si fondano su un sistema finanziario molto diverso, privato il primo (anche per le università pubbliche), pubblico il secondo (anche se ricerca e interi dipartimenti sono spesso sostenuti dai privati). Eppure i risultati sono molto simili perchè entrambi hanno un fattore in comune: la libertà di competere, “Non ordine, non gerarchia, non uniformità, non regolamentazione, non valore legale dichiarato dallo stato; ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi variamente stilati che ogni sorta di scuole, collegi, università rilascia, per l’autorità che formalmente deriva bensì, e non sempre, da un diploma regio, da una carta di incorporazione; ma diplomi e carte non sono nulla di più e forse parecchio di meno dei decreti di riconoscimento di corpi morali, di associazioni filantropiche, di enti più o meno economici, di personalità giuridiche con contenuto variabile, i quali sono firmati ogni anno in Italia da ministri e da presidenti di repubblica e non hanno di fatto alcun ulteriore, come era la terminologia d’un tempo, tratto di conseguenza.” (Einaudi, 1955).

*Professore Aggiunto John Cabot University

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