di Adriano Gianturco Gulisano
La giustizia italiana si sa è inflazionata, lenta e inefficiente, e spesso tra lungaggini e prescrizioni c'è chi ci marcia. Molti cittadini, imprese e potenziali investitori esteri vorrebbero però risolvere le proprie controversie in modo veloce. Una possibile soluzione è l'alternative dispute resolution: una solida realtà nel mondo anglosassone e soprattutto negli Stati Uniti. In Italia la legge prevede l'Arbitrato e la Conciliazione Amministrata, che però stentano a decollare e solo il 20% delle aziende inseriscono abitualmente nei loro contratti clausole di ADR. Uno studio di Andrea Bozzi appena pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni (http://www.brunoleoni.it/) ne svela lacci e lacciuoli, ma anche i potenziali punti di forza.
Oggi l'Arbitrato ha costi elevati che potrebbero benissimo essere ammorbiditi con degli sgravi fiscali per quei soggetti (non che lo prevedono soltanto, ma) che vi ricorrono di fatto, visto che contribuiscono a non intasare i tribunali ordinari, e pagandosi da sé queste modalità di soluzione stra-giudiziale, a diminuire i costi dello Stato che si ritrova meno processi da svolgere.
Inoltre la costituzione delle Camere Arbitrali è affidata dalla legge alle Camere di Commercio, mentre sarebbe utile non prevedere i soggetti abilitati, ma lasciare libera iniziativa a tutti e poi chi svolgerà meglio il compito sarà scelto dalle parti. Come se non bastasse queste creano addirittura degli Albi professionali degli arbitri.
Nelle ultime settimane si è tornati a parlare di arbitrato, in merito alle riforme Sacconi che ne ampliano l'uso nelle controversie in materia di lavoro. L'arbitrato però non utilizzabile solo in una materia. Anzi.
Le decisioni arrivate per via conciliativa invece non sono vincolanti ed esecutorie. Così se l'accordo consensuale delle parti non viene poi rispettato, si è costretti a ricorrere al processo ordinario. La legge potrebbe benissimo prevedere una facoltà di cogenza, cioè che anche le decisioni conciliative possano (o no) essere vincolanti, in modo che poi saranno le parti di volta in volta a decidere preventivamente se dare valore cogente o meno alla decisione risultante. Inoltre la mediazione è utilizzata per comporre controversie insorte tra operatori economici (cosiddette B2B – Business to Business) e tra operatori economici e consumatori (B2C – Business to Consumer), ma non è possibile in un conflitto consumer to consumer (C2C). La previsione legislativa è in questo caso inutile. Urge una deregolamentazione e a decidere per quali materie usarla saranno le parti in comune accordo. Bisogna abbandonare l'ottica in cui è permesso solo quanto previsto per legge. Al contrario, qui più che altrove, serve che tutto sia possibile tranne quanto previsto per legge.
Da un rapporto di Unioncamere emerge, inoltre, che il valore medio delle procedure conciliative è in crescita e si attesta intorno ai 6.400,00 €, quindi a differenza di quanto si crede di solito, possono essere utilizzate per risolvere controversie di importo considerevole.
Insomma la giustizia su base consensuale, a cui le parti si sottomettono volontariamente e di comune accordo, con un contratto scritto, è un'alternativa da considerare seriamente e bisognerebbe permettere, nel modo più libero possibile, che a giudicarne l'efficacia e l'utilità siano i cittadini nelle loro scelte individuali.
Vuoi vedere che inoltre la concorrenza della giustizia stra-giudiziale spronerà quella ordinaria a fare meglio?
Per gentile cortesia dell'autore, il pezzo è stato pubblicato su l'Occidentale