È in corso in questi giorni la visita ufficiale in India del Presidente singalese, Mahinda Rajapaksa, confermato alla guida dello Sri Lanka dopo le elezioni presidenziali e parlamentari di fine gennaio. Il viaggio riveste un valore strategico per entrambi i Paesi. A suo tempo, Winston Churchill diceva che Ceylon, l’odierna Sri Lanka appunto, era il “giardino di casa” per l’India, perla dell’Impero britannico. La posizione geografica e la storia hanno portato l’isola a rivestire lo scomodo ruolo di Stato satellite al subcontinente indiano. In realtà le differenze tra le due nazioni sono sempre state significative. Su questo il Governo di Colombo ha sempre espresso l’intenzione di preservare la propria identità nazionale, cercando di contenere le influenze di New Delhi. L’ingerenza di quest’ultima però si è rivelata spesso automatica, se non addirittura necessaria. Soprattutto per quanto riguarda l’inibizione delle aspirazioni indipendentistiche della minoranza etnico-linguistica dei Tamil: 74 milioni di persone divise fra lo Sri Lanka – dove rappresentano il 12,5% dei 20 milioni di abitanti totali – e la terraferma indiana. Per oltre 25 anni le Tigri Tamil hanno dato gran filo da torcere alle Forze Armate di Colombo, combattendo una guerra etnica per lo più dimenticata, che ha provocato migliaia di vittime. Nel 2001, il gruppo armato è stato inserito nella lista del terrorismo internazionale da parte di oltre 30 Paesi, fra i quali l’India. Il Governo di New Delhi quindi ha giocato in favore del vicino singalese. Da una parte ha evitato che il conflitto coinvolgesse anche il suo territorio, dall’altra è rimasto in attesa di ottenere da Colombo il suo tornaconto. Il viaggio di Rajapaksa in India fa pensare che si sia arrivati al saldo dei debiti fra i due Paesi.
Il Presidente singalese si è incontrato con il Premier indiano, Manmohan Singh, presentandogli il piano di riforme che il suo governo intende adottare. Approfittando della congiuntura di relativa tranquillità dei Tamil, Colombo vorrebbe introdurre un sistema federale che ne riconosca l’autonomia amministrativa. Per questo però è plausibile che Rajapaksa abbia bisogno del placet di New Delhi, onde evitare frizioni né con i Tamil dell’India né con il governo federale.
Quest’ultimo, a sua volta, conferma come stia ragionando in termini di grande potenza quale ormai è. Per contrastare l’alleanza Cina-Pakistan, l’India deve consolidare le buone relazioni con i suoi vicini. Si tratta di un risiko all’insegna della più classica delle dottrine geopolitiche. Islamabad, New Dehli e Pechino sono tre potenze nucleari. Alle volte si rivaleggiano in una competizione reciproca, in altri casi si trovano costrette a condividere la stessa trincea, fronteggiando il medesimo nemico. È il caso della guerra in Afghanistan, dove la Cina non è coinvolta direttamente in termini militari, tuttavia è interessata a evitare che la jihad talebana influenzi il meno possibile la minoranza islamica degli uighuri sotto la sua giurisdizione. Il summit Rajapaksa-Singh va perciò visto da questa prospettiva.
Nei termini più concreti, l’India pretende dallo Sri Lanka la garanzia dire che non ci siano altri ritorni di fiamma dai Tamil. C’è poi da risolvere il discorso dei profughi che a milioni si sono rifugiati sulle coste dell’India in questi 25 anni di guerra. In realtà Colombo non dispone delle risorse né politiche né pratiche per assicurare il suo potente vicino. La Tamil National Alliance, l’unico partito rappresentante quest’etnia che si è adeguato alle regole democratiche del Paese, ha ottenuto il 2,9% dei consensi alle elezioni di gennaio. Si tratta di 14 sui 225 seggi dell’assemblea. È una minoranza, ma la sua eco può raggiungere anche l’India. Delhi peraltro sta premendo per la firma del Comprehensive Economic Partnership Agreement (Cepa), un accordo economico palesemente in favore dei suoi investitori sull’isola singalese. Colombo tuttavia preferirebbe un free trade agreement meno vincolante per il suo mercato e competitivo anche per eventuali interlocutori economici non indiani. Detto questo, le ambizioni di Singh di trasformare lo Sri Lanka in un’appendice strategica per la sua politica di potenza rischiano di essere svilite ancora prima della loro realizzazione.