di Enrico Gagliardi
Berlusconi ormai da anni, ossessivamente, denuncia l’assoluta necessità di riformare la giustizia, dalle radici. Nei giorni scorsi gli ha fatto eco dalle colonne del Corriere della Sera Gianfranco Fini il quale addirittura ha delineato alcuni punti specifici sui quali intervenire. Bossi invece ha frenato gli ardori generali affermando che in questo momento le priorità sarebbero altre.
Tutte parole però, magari belle, magari condivisibili, magari anche necessarie ma niente più che parole che non precedono mai i fatti.
Il Presidente del Consiglio parla di riforma della giustizia, in continuazione si lamenta dell’eccessivo protagonismo di certe procure, di alcuni Pubblici Ministeri descritti quasi come organi “legisbus soluti”: a queste dichiarazioni si fermano però i presunti buoni propositi del Cavaliere. Sia chiaro, non che Berlusconi sia totalmente fuori strada rispetto ad alcune posizioni: la giustizia è in necrosi avanzata e questo lo sanno tutti. Il problema però è un altro: lo stesso signore che ogni giorno tuona dai giornali e dalle televisioni contro la magistratura è poi quello che in tanti anni, da capo del Governo non è mai stato in grado di dare la spinta decisiva per riformare il processo penale e civile.
I motivi potrebbero essere svariati e probabilmente lo sono ma certamente salta agli occhi un elemento che sembra contraddistinguere molti governi succeduti nel tempo: la storia dei rapporti tra magistratura e potere politico è storia della trattativa, storia di modifiche legate ai momenti contingenti, alla necessità di creare meri provvedimenti tampone senza mai elaborare una visione di insieme: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Che almeno però abbiano la compiacenza di non venire a parlare di giustizia giusta, concetto a loro, colpevolmente, dolosamente, estraneo.