“Era semplicemente un fotografo”. Così Isabella Polenghi si è limitata commentare la morte del fratello Fabio avvenuta ieri a Bangkok, durante gli scontri fra l’Esercito thailandese e le “Red Shirts”, che vorrebbero sovvertire il governo attuale. Una riflessione che, nella sua sintesi, spiega l’essenza del mestiere del fotoreporter. Per chi segue le cronache, soprattutto di guerra, la presa diretta è un elemento irrinunciabile. Tuttavia i giornalisti possono scrivere un pezzo nella tranquillità di una stanza d’albergo. Molti inviati sono riusciti a raccontare i fatti accaduti spacciandosi in prima linea, quando venivano invece informati dalle loro “staffette” inviate sui fronti di combattimento a raccogliere notizie. Un fotografo però non si può permettere questo lusso. Per fare il suo mestiere – soprattutto oggi con la crisi mondiale dell’editoria e con la possibilità tecnologica di una circolazione sempre più dinamica delle immagini e delle notizie – Fabio Polenghi doveva esporsi in prima persona.
Polenghi aveva 45 anni, milanese. Un freelance con un curriculum di altissimo livello: l’agenzia Grazia Neri, storico nome della fotografia sin dagli anni Sessanta, ma anche Vanity Fair, Vogue e Le Monde. Non era solo un fotografo di guerra. Anzi, i suoi interessi spaziavano dal reportage al ritratto, dalla moda alla pubblicità. Si dice che la fotografia insieme al cinema siano la “decima Musa”. Gli scatti di Polenghi – che vantava anche un passato da regista – lo dimostravano, in senso artistico e come di testimonianza diretta dei fatti. “Steppin’ out” è stato il suo ultimo libro: una raccolta di fotografie di viaggio e di sport. Istantanee raccolte nel corso di 29 anni di esperienza, maturata intorno al mondo e seguendo la passione personale per lo sport. Una combinazione quindi di amori e di vocazioni. I suoi colleghi di Milano, che lo conoscevano da anni, ci tengono a sottolineare che non era uno sprovveduto. Polenghi si era trasferito nel sud-est asiatico circa tre mesi fa. Quasi un’intuizione, la sua – che è propri di chi scatta immagini – che la zona si sarebbe surriscaldata. Spesso, quando un reporter viene direttamente coinvolto negli avvenimenti – e la sua vita diventa il prezzo per un’eccessiva esposizione – si tende prima a farne un martire, poi a rivederlo come un irresponsabile. Polenghi era un fotografo. È giusto ripetere le parole della sorella per comprendere che alcuni mestieri implicano una variabile di rischio. Per essere bravi bisogna essere capaci di calcolare questa incognita.
È evidente quindi che, se a Polenghi non mancava l’accortezza, sia subentrato qualche altro elemento di squilibrio. Alcune fonti dalla Thailandia riferiscono che la macchina fotografica e il materiale che la vittima aveva addosso al momento dell’incidente non si trovano più. È possibile che, durante la confusione dei primi soccorsi, oppure nel trasporto di Polenghi in ospedale, i suoi strumenti di lavoro siano andati perduti. Chissà nelle mani di chi sono finiti e chissà se, una volta riottenuti, non saranno stati “depurati” di scatti scomodi a qualcuno. In casi come questi la censura è la prima ad attivarsi.
Polenghi è stato colpito mentre era insieme ad alcuni colleghi di testate straniere che assistevano all’ingresso dei mezzi blindati dell’Esercito thailandese nel quartier generale del “Red Shirts” a Bangkok.
La crisi del Paese ha subito un’escalation durante lo scorso fine settimana, quando durante le sommosse nella capitale sono morte 36 persone. Ieri il bilancio delle vittime si è fermato a 5, compreso il reporter italiano. Sono stati dati inoltre alle fiamme la sede di un canale televisivo privato, ma soprattutto il palazzo della Borsa di Bangkok, simbolo del dinamismo finanziario della “tigre asiatica”. In totale sarebbero però una ventina gli edifici presi di mira dalla sommossa. In questo modo si sta verificando ciò che gli osservatori stranieri temevano. L’intransigenza di ambo le parti ha aumentato le tensioni. Queste stanno prendendo il sopravvento in un impero economico che, a questo punto, si trova profondamente ferito nelle sue istituzioni. Le sommosse però stanno coinvolgendo anche il resto del Paese. Finora sono 24 su 76 le province che hanno dichiarato lo Stato di Emergenza. Da come viene valutata la resistenza delle “Red Shirts”, si prospetta davvero una guerra civile.
In realtà la situazione interna del movimento di protesta appare in un certo senso fluida. Lo “United Front for Democracy against Dictatorship” (Udd), identificato qui in Italia con l’appellativo di “Camicie Rosse”, appunto le red shirts indossate dai suoi militanti, si presenta con una base esplicitamente determinata ad andare avanti nelle manifestazioni. D’altro canto, proprio ieri sera, alcuni leader dell’Udd hanno dichiarato la resa di fronte allo strapotere delle forze regolari. Le molotov e alcune armi da fuoco hanno potuto far poco di fronte ai carri armati che hanno devastato le barricate più o meno improvvisate nelle strade della capitale thailandese. La decisione del vertice del movimento è stata però accolta con aperta contrarietà da parte di coloro che da un mese sono scesi in piazza per sovvertire il regime.
Resta oltre modo sorprendente il comportamento di Thaksin Shinawatra. L’ex premier thailandese era caduto per mano di un golpe due anni fa e si era rifugiato a Dubai. Da lì non si è ancora mosso in queste quattro settimane di sommossa nel suo Paese, dove un gruppo consistente di manifestanti sta combattendo – e soprattutto morendo – per riportarlo alla leadership del governo. È uno scenario frequente in quella regione del mondo. Il “Principe” attende che i suoi sudditi si siano dimostrati sufficientemente valorosi per onorarli della sua presenza sul campo di battaglia. Sicuramente è un comportamento poco eroico da parte di Thaksin, più celebre per le sue qualità di tycoon e di finanziere piuttosto che come guerriero.
In nome di Thaksin però, la Thailandia rischia di cadere nel baratro della guerra civile. Era questo che Fabio Polenghi cercava di far sapere all’Occidente.