AUSILIA GUERRERA
L’essenza della casa: luogo dell’anima. Luoghi atmosfere e ricordi ispirano la memoria. La storia personale, lo stile, i desideri, rivivono in un’infilata di stanze che testimoniano la filosofia di chi la abita. Per essere insostituibili bisogna essere diverse, e certe dimore rispondono e coniugano entrambe le categorie: la diversità e l’insostituibilità. Ma non è sempre così: ci sono case peregrine, case di passaggio, case poetiche, case bohemien, case rare eteroclite o solo eclettiche, case antiche o minimal-chic, case di bambola – di ibseniana memoria… – case che casomai avresti fatto meglio a non metterci mai piede; case che conservano tutte un proprio linguaggio, che non promana solo dall’unicità della persona che la abita, a sua volta “abitata” dalla casa, ma che è anche la sua voce personale, perché strutturale, morfologicamente e “fisiologicamente” sua.
Difetti e pregi estensibili dai padrone alle case, e viceversa; perché la casa è come uno specchio che rispecchia la nostra vita. In alcune case sembra di entrare in una vera e propria fabbrica o fucina dell’esistenza, pulsante, inquieta, viva, imperfetta, frutto della fatica. In altre sembra di essere invece in visita al museo, aggirandosi in punta di piedi, in un silenzio sommesso, religioso, tale e tanta è l’esposizione da “natura morta”, sortendo un effetto affatto pervaso da alcun soffio di vita, per cui sei lì lì dal chiedere se forse non era il caso di staccare all’ingresso un biglietto!…
Da altre case non vorresti più uscirne, perché hanno il sapore di un guscio protettivo, come di un ventre materno, un nido caldo rassicurante. In ogni caso è sempre una questione di intimità, donata e ricevuta da uno spazio vergine, che riceve il nostro sentire, senza etichette, senza riserve. A volte – al di là delle esercitazioni fantastiche e immaginifiche sullo stile delle singole case visitate secondo le proprie personali proiezioni – è difficile risalire all’identità dei proprietari, dall’identità e dalla personalità delle dimore.
Spesso vivono di vita propria, rifulgendo di una luce speciale. Anche quando le lasci. Anzi a maggior ragione. In tal caso rivivono nella memoria. E la memoria personale le carica di un sovrappiù emotivo e di senso. La maison quando la lasci si ammanta di una luce speciale e aumenta di fascino: la patina del tempo, depositata sui suoi tetti, sulle sue grondaie, sulla scena domestica, come uno strato di polvere sottile quanto basta a preservarla intatta nell’andar del tempo, è un sedimento nell’anima che ne fa un ricordo unico; è l’orizzonte di una vita intera compreso di elementi sensoriali, emozionali, oltreché strutturali. La casa, da questo punto di vista, non è un mondo chiuso, risolto in se stesso, monade asettica, perché dialoga con chi la vive. È il linguaggio della memoria.
A seconda dell’umore, della nostalgia, diviene la casa dell’anima. Quando si è dentro non la si apprezza del tutto, fino in fondo, alla ricerca della dimora ideale. Ma poi si finisce per amare il calore di ciò che si ha. O se ne apprezza la praticità, ottenuta dopo una serie di accomodamenti fra te e lei, come in una convivenza, che assurge ad arte del vivere. Sarebbe il caso di apprezzarle da subito. E per le innumerevoli imperfezioni, basta esercitare con gli anni la virtù della tolleranza (o ci si rimbecillisce e ci si ingessa in rigidità perniciose).
La casa ti conquista o sei tu a dover conquistare lei… è un’appropriazione progressiva di spazi perimetri volumi angoli da smussare o da esaltare a seconda delle idee che balenano di volta in volta in mente, inseguendo un percorso ideale progettuale nella redistribuzione dell’arredo di oggetti di suppellettili e persino nella inquadratura della parete più a adatta cui inchiodare proprio quel quadro preferito.
Una volta fuori di lì, un’aureola un alone particolare, quello del vissuto, si srotola davanti alla memoria rifulgendo per bellezza muliebre e bagliori antichi… Mura che trattengono un cenno personale che era sfuggito mentre si viveva: è la maison-bambagia, su cui mollemente si sono adagiati i nostri tic, come scrigno ovattato dei nostri sogni, di cui s’impossessa. In special modo emanano questa sensazione le case dei ricordi d’infanzia. Solitamente sono quelle dei nonni, che ci legano per sempre a sé, grondando di senso compiuto, quello che poi cerchiamo di afferrare per tutta la vita. E per quanto credo siano rari i casi di persone che muoiono lì dove sono nati, resta un senso di appartenenza, forte ancestrale viscerale, che dà senso alla vita attuale: struttura e trama della nostra sensibilità. È un gioco di rimandi interiori depositati come un alone sacro – da nume tutelare – su ogni vita.
Per cui non è mai dato fare tabula rasa con le case dell’infanzia: lì ci si arrocca in cerca di sé, facendo capolino dalle stanze dei ricordi per riemergere ritemprati. Sorgente d’aria! Case che difendono dalla deriva, mentre ogni cosa ribolle intorno. Ricordi sulfurei sfumati dissolti, evaporati come fantasmi, eppure ancor più vivi reali e potenti di quelli presenti. Ancorati alla casa ci si immerge nella memoria del cuore e si fa luce su noi stessi.
Non sono anni perduti, ma anni ritrovati nel presente di un’identità personale e di una storia unica; una variazione atmosferica dell’anima da rimembrare, da rievocare. Pensieri e sentimenti nel corso delle stagioni si sedimentano nelle pareti delle dimore, mentre le camere incamerano umori, restituiti poi intatti e inalterati, perché contenitori emotivi dove la vita si addensa. Anche quando sono decrepite o, peggio ancora, fatiscenti lugubri ruderi, allegri fantasmi della decadenza, persino cancellate dalla topografia urbana, non lo sono mai dalla toponomastica dell’anima. Sono luoghi dell’anima.
Luoghi reali o ideali, ancora della storia personale. Luoghi ineffabili e imperituri come l’anima, perché, come spiffera Vitaliano Brancati: “non possediamo le case, anzi non possediamo nulla che non si possa mettere in una valigia o in un baule” …dei ricordi.