di GAJA CANCIARELLI Cenciarelli
Frank Solitario, pseudonimo dietro cui si cela un editor di libri e testi musicali, nonché autore di programmi radiofonici, è nato a Roma nel 1977, ama David Foster Wallace e i gatti [il che lo rende, agli occhi di chi lo intervista, vieppiù meritevole].
Frank Solitario è, in sintesi, l’autore-tipo di Atlantide. Ovvero uno scrivente il cui lavoro merita di essere approfondito.
Ho assistito, poco tempo fa, a un reading intitolato “I racconti degli altri” (presso la Libreria Eternauta, in compagnia di Alessandro Dezi, n.d.r.), nel quale tu hai letto un’intervista al colonnello Gheddafi. mi spiego meglio per chiunque non sappia di cosa stia parlando. In realtà, hai tratto dei brani dal Libro Verde e li hai rielaborati in forma d’intervista. Ci spieghi qual è il tuo approccio alla narrazione?
La narrazione per me è visione del mondo.
Lo scrittore non necessariamente porta sé stesso sulla pagina, di certo la sua visione; il che non significa descrizione.
Questo comporta il situarsi nei sempre più nebbiosi e labili confini tra realtà e irrealtà.
Da Orson Welles in poi, e anche prima, tema fondante della società contemporanea è la psicotica sovrapposizione tra realtà percepita dall’individuo e realtà rappresentata (dai media, dalla mente…).
Nella fattispecie l’operazione menzionata rappresentava una manipolazione dell’oggetto preso in considerazione.
Rimane difficile distinguere con esattezza se i testi tratti dal Libro Verde siano reale opera di Gheddafi o brillante invenzione di un autore grottesco particolarmente ispirato.
I confini sono svaniti in un delirio avvolgente, considerando che le teorie del Rais sono diventate fulcro di una meta-narrazione riguardante una fantomatica intervista.
Anche qui, ci conviene fuggire ogni certezza; non sarebbe così assurdo se Gheddafi stesse ancora girovagando nei deserti e avesse consegnato al teatrino del “reale” un suo sfortunato sosia.
Scrivi sotto pseudonimo perché, ti cito testualmente, “dici di volerti mantenere casto fino al tuo primo romanzo”. Parliamone.
Ho scelto uno pseudonimo perché al tempo in cui decisi di scrivere mal sopportavo la letteratura ombelicale.
E’ una negazione in partenza dell’autofiction, eliminare l’idea di autore come nome e cognome all’anagrafe.
Non sarei così netto oggi. E’ sufficiente distinguere tra visione e autocelebrazione.
Poi si può fare anche della straordinaria autofiction, ma solo alla condizione di rifuggire il particolare per ambire all’universale.
La gestazione del mio primo romanzo (ne sto portando avanti tre, ma portare avanti è un eufemismo, a meno che non si parli di millimetri) sarà apocalitticamente decennale.
I racconti nascono e muoiono esaurendo il loro obiettivo narrativo, che è sempre per quanto mi riguarda profondo ed esistenziale.
Anche nei racconti apparentemente comici e surreali. Anche se la prospettiva tende a farli percepire solo ad un primo livello superficiale.
Il romanzo nella mia visione deve essere onnicomprensivo e necessario, giustificare e portare a compimento uno o più temi universali alla base della propria e altrui esistenza.
Per quel momento forse userò il mio vero nome, quasi un epigrafe.
Molti dei tuoi racconti sarebbero perfetti per una rappresentazione teatrale. aggiungo che in alcuni ho trovato echi de “La cantatrice calva” di Ionesco.
Beckett, Ionesco e (alcune cose di) Queneau sono per certo le mie concezioni della teatralità letteraria. Ce ne sono anche di musicali e cinematografiche, oltre che più pure ed oltranziste dal punto di vista della parola per la parola.
L’ironia è uno dei tratti caratteristici del tuo stile narrativo, fermo restando che i racconti drammatici – alla luce di questa vena – risultano ancor più cupi e disorientanti. in quale modo l’ironia riesce a piegare la scrittura alle tue esigenze narrative?
L’ironia è un vero e proprio trucco di prestidigitazione. E’ un effetto speciale cinematografico.
E’ tutto quello che un regista può creare con i mille strumenti del cinema e un mago con i segreti di ciò che è invisibile agli altri.
Ma non è semplice illusione. E’ anche sostanza, componente fondamentale della mia visione.
E’ il perfetto equilibrio dove il drammatico non diviene mai patetico e il comico ridicolo.
Ti cito: “ci sono due categorie di uomini: quelli capaci e quelli incapaci di fare del male”. in quale delle due categorie ti collochi, quando scrivi?
Credo di essere incapace di fare del male; c’è una grande pietas anche nelle storie più crude e drammatiche. Empatizzo non poco con i miei personaggi, me li vedo vivere e spesso soffrire vicino.
Anche quando uno di loro muore, io provo con la mia scrittura a sedermi accanto a lui, a prenderlo per mano fino all’ultimo respiro.
So che sei un lettore accanito di David Foster Wallace. In “Infinite Jest”, Foster Wallace dichiara: “Cercate di vedere voi stessi nei vostri avversari. Vi porteranno a capire il Gioco. Ad accettare il fatto che il Gioco riguarda la gestione della paura”. Scrivere è un modo di gestire la paura?
Scrivere è puntare all’unico vero obiettivo che chiunque dotato di una sensibilità tenta, conoscendo nient’altro che sconfitta, per tutta la vita: sconfiggere la morte, venire ricordato, lasciare un segno, qualcosa che rimanga nel Nulla.
Consapevoli che a vincere sarà sempre il Nulla.