di AUSILIA GUERRERA
La percezione delle percosse ricevute dalle donne vittime dello stalking non è mai data una volta per tutte, per certa: chi subisce solitamente non prova nulla; o, per meglio dire, non prova più nulla. È un paradosso difficilmente spiegabile e sopportabile, ma la convivenza con un simile doloroso paradosso è d’obbligo in certi casi. La vittima rassicurata dal suo stalker di essere al sicuro e protetta da lui, fra le braccia del suo aguzzino, vive cioè sopravvive a se stessa, dibattendosi fra un odi et amo malsano, in un limbo amorfo, dopo un’angosciante risalita, solitamente per i capelli, dall’inferno.
La figura dello stalker, statisticamente parlando, proviene dalle classi sociali più disagiate, solo che, alla luce della recente crisi internazionale che ha messo in ginocchio anche l’occupazione maschile, ferendo nell’orgoglio l’uomo italiano, sempre più svirilizzato, ha allargato sensibilmente la forbice della categoria sociale “interessata”. La crudezza dei dati stride sensibilmente con la violenza fisica verbale, la brutalizzazione dell’essere umano, solo che nell’approcciare un fenomeno sempre più diffuso è impensabile prescinderne. Ma non è questo il punto. Fermo restando che non ci sono attenuanti di sorta, ma solo spazio per un’aggravante che pesa o meglio dovrebbe pesare sulla coscienza dell’orco, che solitamente non ha, perché l’ha chiusa in cantina o in soffitta, scegliete voi, con la sua vittima preferita: la propria ragazza, assumere una iniziale posizione di sbieco laterale per parlare del problema assillante ansiogeno dello stalking, porta con sé come principio basilare e umano quello di entrare nella stanza della vittima, affacciandosi in punta di piedi, a osservare con estrema delicatezza i segni di una ferocia immotivata. Dove non c’è remissione dei loro peccati, né voglia di generalizzazione, né tanto meno una sorta di giustificazione sociale in vista di un’improbabile attenuante, ma solo, tutt’al più, la presa d’atto di un’aggravante efferata.