Attesi ritorni discografici: delude Sir “Macca”, convincente il nuovo corso “narrativo” di Leonard Cohen

di SALVATORE FERRARO

Confesso di aver atteso con una certa trepidazione l’uscita del nuovo disco di Sir Paul Mc Cartney dal titolo “Kisses on the bottom”.

Il passaparola degli addetti ai lavori rumoreggiava, già da tempo, che si sarebbe trattato di un disco perlopiù di covers. Particolare che anziché sminuire l’attesa l’aveva resa ancora più palpitante.
E cosi è stato: covers, sì.

Ma non covers qualunque.
Parliamo invece di piccole gemme musicali, di quel immenso patrimonio di songwriting anni ’30 e ’40 dal sapore un po’ old fashion, qualcosa che ha influenzato il corso della musica popolare molto più di quanto si potrebbe pensare.
Se i Beatles, infatti, sono la matrice sonora di tutta la storia del pop e del rock a venire, molto lo si deve, infatti, anche a questo fecondo periodo musicale posto tra le due guerre.

La scrittura beatlesiana, in definitiva, si è sempre nutrita di due decisivi filoni musicali.
Da una parte, quello ritmico, nervoso e pulsante del rock’roll primordiale di Carl Perkins, Buddy Holly, il re Elvis, Chuck Berry, gli Everly Brothers (il tutto anticipato dalla rata “Skiffle” di Lonnie Donegan”) di cui John Lennon ne è stato il più credibile alfiere e innovatore pennellandolo di nuova poesia esistenziale, aspra e creativa.

Dall’altra, quegli intarsi di melodia accattivante e struggente, ricca e originale che, appunto, di questo periodo musicale, gli anni ’30 e ’40, ne sono, in qualche modo, figli legittimi e di cui Paul è stato il più creativo e geniale continuatore.

Canzoni dei Beatles come “Yesterday”, “Michelle” ma ancora più “Penny Lane”, “Lady Madonna” “Getting Better”, When I’m Sixty-Four”, “Your Mother Should Know”, Honey Pie”, “Martha My Dear” e anche quelle della carriera solistica di Paul “Dear Boy”, “You gave me the answer” sono “incubazioni” musicali concepite dall’ascolto adolescenziale e reiterato proprio di questo patrimonio musicale.

Lo stesso Paul, nel corso degli anni, ha sempre tenuto a ricordare e sottolineare l’importanza di quell’”ascolto di formazione” fatto nel salottino di casa assieme a un padre vedovo, appassionato di Fred Astaire e pianista dilettante di motivetti ballabili.
Ecco perché il sentimento che fuoriesce all’ascolto del nuovo disco di Paul è di sottile delusione.
Per carità, la voce di Paul è ispirata, credibile, e la scelta dei pezzi ottima e di qualità (“It’s only a paper moon” “I’m gonna sit right down and write myself a letter”, tra i migliori).
L’ascolto, però, rivela l’assoluta assenza di una cifra artistica nel confezionare questa antologia.
Non c’è ricerca di un sound. Non c’è voglia di esplorazione di quel mitico suono degli anni ’30. Il disco suona freddo, anzi peggio. La band di qualità che accompagna Paul in questo suo ritorno alle radici sembra quasi produttrice di un suono campionato, per nulla espressivo, asfittico e stantio. Peccato.

Peccato, perché l’idea originaria di Paul aveva il sapore di un’azzeccata ricostruzione filologica del suo percorso di compositore. Il “come tutto nacque”, il dissotterramento di un tesoro nascosto che fa parte della nostra cultura, che l’ha influenzata, che ne è divenuta, in qualche modo, colonna sonora

Considerazioni diverse vanno accreditate, invece, al nuovo disco di Leonard Cohen dal titolo “Old Ideas”. Il buon vecchio Leonard, innanzitutto, conferma la bontà della scelta adottata già nel precedente “Dear Heather”di privilegiare la forma della spoken song (e non perchè a 74 anni suonati gli manchi la voce, anzi) che rende il testo dei pezzi più solenne e affascinante.
Cohen è un levigatore delle sue liriche. Nel senso che, come lui stesso ha sempre spiegato, il suo lavoro di autore è di scelta, selezione e di strappo di lembi verbali da intere e lunghe tessiture liriche su cui ha lavorato per mesi e che vengono ridotte all’osso per diventare song purissima.

La musica è essenziale, semplice (sottolinea ironicamente Cohen:”La critica dice che uso tre soli accordi. Sono ingiusti: ne conosco almeno cinque”) con un gusto per il suono folk con sottili venature bluesy che dona ai pezzi di questo disco un’intensità davvero godibile. “Going Home” e “Amen”, forse, gli episodi migliori di un disco che, come dice lo stesso titolo, tende a confermare e raccontare i motivi principali della scrittura coheniana: Dio, l’amore, la perdita, la morte. Cohen lo fa alla grande, con la sua voce, con la sua musica.

Davvero un gran disco.

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