Metapolitica

di SARO FRENI

E’ convenzione tacitamente accettata tra i recensori che, parlando di un libro, si citi subito, nelle prime righe, il titolo. Faremo un’eccezione, per questa volta, convinti che non se ne avranno a male né l’autore del testo – il sociologo Carlo Gambescia – né l’ideale corporazione dei recensori.
Il titolo, naturalmente, verrà svelato, se non altro per agevolare chi vorrà recarsi in libreria per acquistare il volume, ma soltanto dopo aver detto qualcosa sul sottotitolo, che è L’altro sguardo sul potere.
Dato che l’autore intende proporre uno sguardo è bene capire quale sia quello corrente. Come si guarda, in genere, il potere?
Lo sguardo usuale è uno sguardo arcigno, perché vede nel potere un nemico da abbattere, onde realizzare una società senza potere, senza governi, senza regole. E’ questo lo sguardo prevalente tra gli intellettuali di contropotere, i quali vedono nelle strutture che reggono lo Stato e nei loro protagonisti pro-tempore, gli odiati politici, degli avversari per antonomasia. Un altro sguardo è quello cinico e disincantato di chi vede il potere come un male necessario, convinto che nella peggiore delle ipotesi è bene darsi un assetto istituzionale che limiti gli abusi di reggitori incapaci o corrotti.
In entrambi i casi, lo sguardo sul potere è rivolto dai suoi potenziali contraddittori, ossia i cittadini, i quali dispongono certamente di piccoli poteri, nella loro dimensione privata o pubblica, ma che si trovano dall’altra parte della barricata rispetto ai governanti.

Tuttavia, quando Gambescia parla di un altro sguardo crediamo che alluda a qualcosa di diverso. Si riferisce, a nostro parere, al modo in cui si può osservare la politica, i suoi protagonisti, le lotte aspre e senza quartiere tra élites che si contendono la guida degli Stati, gli scontri tra interessi diversi e contrapposti che cercano una rappresentanza e si cimentano nella conquista di posizioni egemoniche. Questi eventi, che trovano spazio sui giornali, nelle stanche cronache di politica interna, fatte di ricostruzioni pettegole e interviste sempre uguali a se stesse, vengono interpretati spesso in modo banale, piatto, pedestre, privo di profondità culturale e di consapevolezza sociologica. Che cosa intendiamo per consapevolezza sociologica? Intendiamo, ed è ciò che emerge dalle pagine di Gambescia, che sotto la superficie degli eventi storici contingenti esiste una storia lunga, che i sociologi misurano e interpretano alla luce di regolarità e cicli. Così, per sfuggire al presentismo, alla logica del giorno per giorno, dell’effimero e del caduco, c’è una sola possibilità: la metapolitica.

E abbiamo svelato, così, il titolo del libro: Metapolitica, appunto. Che cosa sia, l’autore lo spiega, prendendo in esame e scartando i vari modi di intendere l’analisi della politica – e nello specifico, la filosofia politica, disciplina che per varie vie si interseca con la metapolitica. Gambescia non nasconde che il termine metapolitica sia stato guardato con sospetto e diffidenza, in passato, un po’ perché difficilmente catalogabile a livello accademico, un po’ perché si tratta di uno strumento ideologico ad alto rischio di strumentalizzazione. Gambescia ricorda come Cantimori, recensendo un libro sull’argomento di Peter Viereck, avesse messo in guardia i suoi contemporanei da questo tipo di concezioni, molto ideologiche e pericolosamente ambigue, se usate in malafede. Il noto storico accusava i sostenitori di queste idee di allontanarsi dalla razionalità occidentale per approdare a un irrazionalismo alimentato da suggestioni totalitarie.

Fatta questa debita premessa, Gambescia ci accompagna nel cammino della metapolitica e ci fa incontrare Badiou e Miglio, Shils e Del Noce, oltre ai classici della sociologia (Pareto, Mosca, Michels, Weber) e, naturalmente, a Sorokin, autore di cui Gambescia è grande ammiratore.
Dalla lettura emergono molti spunti. Partendo dalla riflessione teorica, si giunge all’analisi dei fatti politici più rilevanti del XXI secolo. Come ad esempio, il contrasto tra il pluralismo politico-sociale e il policentrismo dei valori. Gambescia fa notare come questi due concetti, all’apparenza similari, siano in realtà molto diversi e non si debba «confondere il libero pluralismo delle forme politiche ed economiche con il tirannico policentrismo culturale di derivazione relativista» (pag. 49). Per spiegare questo concetto, l’autore si serve di un esempio.

«Nella società europea tardo medievale (secoli XI-XII-XIII), alla pluralità delle forme politiche ed economiche (comuni, regni, signorie, imperi, economie autarchiche, di scambio, mercantili), corrispondeva un’unica tradizione culturale e religiosa, di tipo cattolico alla quale tutti i contendenti si riferivano, condividendo una reale unità di fondo: al pluralismo politico e sociale non corrispondeva dunque il policentrismo dei valori. La tradizione condivisa da tutti era unica.
Nella società attuale, invece, il policentrismo dei valori sta avendo la meglio sul pluralismo politico e sociale. Da un lato infatti la globalizzazione uniforma il mondo economicamente e politicamente, cancellando ogni forma di pluralismo, ma dall’altro lato il “conflitto di civiltà”, reinventato culturalmente negli Stati Uniti de dopo-Prima Guerra del Golfo, si va estendendo allo stesso Occidente, provocando un inarrestabile e aggressivo monocentrismo valoriale dell’Occidente. Nella nostra società per un verso, al suo interno confliggono, all’insegna del “nichilismo gaio”, i valori più diversi: liberali, libertini, socialisti, anarchici, cattolici, ecologisti, eccetera. Per l’altro, al suo esterno, si assiste al conflitto tra il monoteismo (in senso valoriale non strettamente teologico) occidentalista e altri monoteismi, religiosi o meno.» (pag. 49-50)

Non v’è chi non veda la sottigliezza di questo paradosso, che si produce in un mondo post 11 settembre, in preda ad una sorta di schizofrenia politica e ideologica, e sempre in bilico tra lo spirito di crociata esibito verso l’esterno e l’indifferentismo ostentato all’interno.
In questo contesto, ci si potrebbe chiedere che ruolo rivestano i cattolici. Gambescia lo spiega, prendendo proprio questo gruppo sociale come esempio di azione metapolitica. Ciò che interessa l’autore è la lotta per l’egemonia culturale. Gambescia parla dei cattolici come una minoranza attiva, combattuta tra il rifiuto del mondo perorato da certi tradizionalisti, l’entusiastica adesione al sistema praticata dai più accesi filo-americani e il compromesso tattico con l’esistente, tipico dei movimenti carismatici come Comunione e Liberazione.

Una caratteristica di questo libro consiste nello sviscerare, anche nelle implicazioni più nascoste, una serie di concetti, che normalmente vengono utilizzati senza starci troppo a pensar su. Uno di questi lo abbiamo già menzionato: egemonia. Con inevitabile il riferimento a Gramsci. Un altro è élite, parola chiave non soltanto dei maestri elitisti ma di tutta la sociologia. L’autore dedica molta attenzione anche al termine tradizione, in una luce che non è né quella sacrale dei tradizionalisti, i quali ipostatizzano questo ideale fino a farne il faro di un’impossibile utopia regressiva, né quella demistificante degli anti-tradizionalisti, i quali squalificano questa parola al rango di brutta superstizione facilmente smontabile con un abile lavoro di filologia.

Questa terza via, Gambescia la percorre anche quando scrive di liberalismo, di Stato e società. Il Nostro si pronuncia a favore di un liberalismo mite, che valorizzi il momento politico, messo in ombra da interpretazioni troppo concentrate sull’economia. Naturalmente, Gambescia non è uno statalista, e non pensa che si possa realizzare una società liberale con il collettivismo integrale. Questa sarebbe un’assurdità. Piuttosto crede, con molta ragionevolezza, che la parola liberalismo non coincida con il turbo-liberismo, ma con una idea di società che lasci spazio ai gruppi intermedi, come sosteneva Reinhold Niebuhr. Anche i gruppi sono pericolosi, perché potenzialmente in grado di opprimere l’individuo in una asfissiante morsa corporativa. Ma è un rischio da correre, secondo Gambescia, a meno che non si voglia ridurre l’uomo ad una monade isolata, perennemente agitata soltanto da voglie egoistiche, interpretabili razionalmente nella logica dell’homo oeconomicus.

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