di Salvatore Italia
Nella parola borgo c’è chiusa gran parte della storia del nostro Paese, delle sue trasformazioni sociali ed economiche. Da questo lemma – la cui etimologia è incerta tra il tardo latino burgu(m) e il germanico burgu(s) – si segna storicamente il passaggio dall’epoca feudale a quella moderna, con la nascita della borghesia, ossia di quella classe sociale che ad un certo momento della storia europea scalerà la vetta della società andandosi a sostituire all’aristocrazia terriera nella guida della nazione.
Quasi contemporaneamente il luogo del borgo segna il suo tempo, passando da centro di vita ed affari a territorio fantasma con il progressivo abbandono dei suoi abitanti verso le grandi città industriali. Nati originariamente come estensioni feudali del castellum parvulum*1 del signore locale, talvolta addirittura inglobandone la rocca o trasformandola in abitato rurale, i borghi diventano oggi luoghi del ricordo.
A chi non è capitato, girando con la propria auto nell’hinterland, di scorgere verso l’alto, immerso nel verde, un paesino arroccato sulla collina, le cui case cingono quasi proteggendola una vecchia torre merlata. E quante volte non si è stati tentati di cambiare itinerario e seguire quel sentiero di asfalto che promette di portare in un luogo del mistero, che fa pregustare il criptico sapore di nude stanze nobili, ponti elevatoi, fredde segrete, finestre con bifore, vicoli medioevali, botteghe artigiane e profumi di altri tempi.
Nel maggior parte dei casi la propria voglia di avventura rimarrà tradita, trovandoci davanti case dai portoni chiusi da decenni, nessuna traccia di artigiani e castelli recintati dalla protezione civile. Rimarrà il gusto di girare tra le stradine strette che contorcendosi portano fin su all’alto abitato feudale, ogni tanto una casa illuminata ed una fontana che getta acqua chissà per chi. Si scoprirà che i pochi abitanti del posto (quelli che non si sono inurbati nelle megalopoli) vivono poco più in là in una zattera di asfalto e cemento più a valle.
Questo è ancora oggi lo stato di almeno l’80% dei borghi italiani, nonostante siano per loro intrinseca natura i luoghi turistici per eccellenza dove il visitatore può cogliere il vero significato dell’Italia medioevale.
Ogni ricchezza è misurabile e quella dei borghi ha numeri incredibili, sia in ordine alla quantità dei siti che alle ricchezze architettoniche, paesaggistiche e gastronomiche.
Parliamo di almeno 5000 siti tra borghi e castelli, che possono ospitare circa 22 milioni di persone e rappresentare con il loro contado più di 8000 prodotti tipici.
Si tratta di un asset eccezionale in grado non solo di valorizzare l’identità dei luoghi, ma di assicurare una concreta fonte di guadagno in termini di turismo, di commercializzazione alimentare ed anche di attività immobiliare.
Come spesso accade nel Bel Paese, tutto questo potrebbe essere, ma non è.
È certo che non tutti i mali vengono per nuocere, perché del problema dei borghi medioevali europei si iniziò a parlare negli anni ’70 (Convegno di Monaco*2), periodo assai triste per l’urbanistica italiana e per il pessimo gusto delle giunte comunali nostrane. Mentre buona parte dei paesi europei (in particolare Francia, Inghilterra e Germania) provvedeva al restauro dei loro abitati antichi, in Italia il disinteresse culturale della classe dirigente risparmiava dal possibile scempio questi beni di incredibile valore storico ed economico.
Detto altrimenti l’abbandono dei borghi a vantaggio della città ha garantito la conservazione dell’impianto urbano e dei caratteri originari dei nuclei antichi. Purtroppo, se il mancato danno da cattivo restauro e ignoranza teleologica dei siti è stato il lato positivo del non intervento delle amministrazioni italiane, dall’altro la migrazione verso la città si è tradotta in una deleteria assenza di cura provocando il progressivo deperimento degli immobili per scarsa manutenzione ed in alcuni casi il cedimento dei interi isolati a causa dei sismi locali.
A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 la favorevole congiuntura economica, insieme allo svilupparsi di una idea di qualità dell’abitare, ha spinto molte famiglie – italiane e straniere – ad acquistare una “casa per le vacanze” in diversi borghi italiani per sfuggire dallo stress della città. Questo interesse verso l’architettura cd. povera e rurale – ancorché esclusivamente privato, geograficamente circoscritto e limitato al periodo feriale – ha permesso il progressivo e naturale recupero di diversi centri antichi. Sennonché le mutate condizioni economiche degli anni 2000, il crollo del dollaro e della forza di acquisto dell’euro, ha bruscamente fermato questo processo.
Nel 1999 Daniel Kihlgren (industriale svedese) conosciuto come “l’uomo che salva i borghi medioevali”, assecondando la sua passione per l’Italia, iniziò una proficua speculazione commerciale consistente nel compare direttamente dai proprietari (ormai trasferitisi altrove) le case disabitate dei borghi, provvedendo egli stesso ad un adeguato ed intelligente restauro e trasformandoli in centri di turismo culturale. Anche qui i numeri parlano chiaro se nel 2000 S. Stefano di Sessanio, uno dei primi borghi salvati da Kihlgren, era disabitato alla fine del 2008 c’erano 120 abitanti, una trentina di attività commerciali e 7.300 presenze turistiche ricevute per lo più dall’albergo Sextantio di proprietà del cementificio svizzero di Kihlgren. L’operazione fu così apprezzabile che il nostro “salvatore di borghi” comprò altri cinque siti medioevali ed ottenne venti concessioni trentennali per altrettanti centri storici minori.
L’idea di ridestare dal loro sonno secolare i borghi antichi, combinando recupero architettonico e culturale con il conseguimento di guadagni economici, è la strada principe che dovremo seguire se vorremo davvero assicurare alle generazioni future una testimonianza concreta di ciò che fu l’Italia medievale e pre-industriale.
Recuperare un singolo quartiere antico e inserirlo nel circuito del turismo internazionale richiede una strategia economica complessiva, che combini in se l’industria turistica alla commercializzazione dei prodotti agroalimentari e artigianali e non da ultimo al mercato immobiliare.
In questo modo i costi altissimi di restauro degli abitati antichi e della loro manutenzione possono essere non solo assorbiti, ma permettere la trasformazione di una ricchezza in fieri in un incremento del PIL nazionale.
L’approccio economicistico comporta anzitutto di riconsiderare l’estensione dei progetti di restauro: passando da piccoli ed isolati lavori locali ad un’opera di intervento nazionale. Non avrebbe, infatti, senso riqualificare i borghi nobili a macchia di leopardo, così come è stato fino a oggi, ma è necessario costruire un circuito turistico in cui il viaggiatore possa essere condotto dalle nostre frontiere del nord fino a quelle dell’estremo sud.
Occorre poi intenderci sulla consistenza dell’opera di risanamento, sarebbe infatti del tutto incongruo, in termini di mercato, provvedere al mero rifacimento delle facciate e una “romanella” degli intonaci, occorrendo invece un vero e sapiente restauro degli edifici storici e dell’abitato medioevale.
Ciò non significa però pensare al borgo restaurato come un mero museo a cielo aperto, luogo incontaminato dove celebrare la scienza del recupero architettonico, il viaggiatore sarebbe deluso nel trovare intorno a se soltanto scatole vuote e verrebbe peraltro frustrata l’unica opzione possibile di conservazione e manutenzione del rinato abitato, ossia la sua destinazione ad uso abitativo.
Infatti le potenzialità del piccolo centro storico sono altissime anche in ordine al bisogno di case a prezzi ragionevoli e in una dimensione umana più serena di quella offerta dalle grandi città, le cui periferie somigliano sempre più spesso a dormitori.
In altri termini il problema del recupero della nostra storia trova una possibile risposta all’interno della domanda di mercato di case da abitare, ancor più che delle seconde case.
L’obiettivo non è semplicemente il mantenimento della poca popolazione locale, ma all’acquisto di nuovi cittadini, di nuove attività: di vita, perché solo tramite essa il borgo medievale può animarsi e raccontare la sua storia secolare.
Tutto questo alla condizione che al recupero degli edifici si associ un sensibile investimento tecnologico, dotandoli di un’anima digitale, in una conciliazione tra local e global che rendano desiderabile vivere poco più lontano dalla grande città senza subire gli svantaggi del loro naturale isolamento.
Connettività wi-fi, middleware, domotica*3 sono parole chiave per lo sviluppo di una moderna qualità della vita. Ad esse vanno aggiunte formule di incentivo economico, come sgravi fiscali per chi acquista una casa in un borgo o vi avvia una propria attività, specie se legata al circuito delle tradizioni locali. Diversamente da quanto si crede il borgo può risultare l’habitat ideale tanto per le giovani coppie, quanto per chi ha raggiunto la terza età, trovando qui entrambi una dimensione del vivere urbano più simile ai ritmi naturali dell’essere umano.
Infine, i borghi possono risultare un interessante terreno di sperimentazione delle nuove tecnologie e delle metodologie di ricavo e distribuzione di energia domestica e urbana.
La costruzione di una rete nazionale dei borghi potrebbe rappresentare la mappatura ideale su cui testare un razionale connubio tra fonti energetiche tradizionali e alternative modulate secondo la morfologia dei luoghi. Se consideriamo da una parte l’esiguità dell’abitato e delle connesse necessità energetiche e dall’altra che almeno il 45% del consumo di energia è destinato al riscaldamento e alla illuminazione, si può ipotizzare l’utilizzazione diffusa del fotovoltaico per quanto riguarda sia gli edifici pubblici, i siti archeologici ed anche, almeno in parte, per le abitazioni.
Peraltro, grazie all’innovazione tecnologica, l’orribile distesa di pannelli solari, che sarebbe antitetica ad un equilibrato sviluppo architettonico, è superabile attraverso l’impianto di tegole termiche*4 del tutto simili a quelle dei tipici casolari, ma con la caratteristica di contenere celle solari in grado di catturare la forza del sole e trasformala in acqua calda ed elettricità.
La rinascita del borgo italiano passa attraverso una complessa trasformazione ispirata alla filosofia per cui il borgo è vita e ha ragione di esistere perché produce ricchezza culturale, ambientale, abitativa e non da ultimo prodotti agroalimentari e di alto artigianato.
Ma non basta, il borgo deve divenire nell’immaginario collettivo il posto in cui è piacevole vivere, lavorare e crescere i propri figli, perché capace di dare serenità ai rapporti interpersonali, contatto con la natura, benessere psicofisico, ma anche occasioni di lavoro, sia esso il commercio dei prodotti locali, la loro produzione, il turismo o qualsiasi altro lavoro che grazie alle moderne tecnologie possa essere svolto a distanza dalla sede principale.
Il borgo medioevale deve essere concepito non solo come luogo del ricordo, teatro di una narrazione, ma come un prodotto tipicamente Made in Italy, in cui paesaggio, architettura, prodotti tipici, artigianato, stile di vita e di lavoro rappresentino verso tutto il mondo il marchio del vivere italiano.
Non sono chimere, ma realtà edificabili attraverso un piano di sviluppo coniugato alla moderna economia di mercato, capace di sperimentare virtuose joint venture tra aziende private e istituzioni pubbliche. Nell’incontro sinergico tra capitali privati e finalità pubbliche il borgo potrà raccontare la sua storia alle generazioni future e dare lavoro e case ai cittadini di oggi: un viaggio nel passato per chi verrà a scoprire le bellezze dei posti e un cammino verso il futuro per chi vorrà viverci e lavorare.
Note
1) La parola “borgo” la usa Vegezio, scrittore del IV-V secolo, come sinonimo di “castellum parvulum”: piccolo castello.
2) Nel Convegno di Monaco del 1965 furono presentati i primi studi di settore ed in particolare furono inglesi e francesi a dare un contributo significativo con relazioni di scavi stratigrafici e casi paradigmatici come i villaggi di Rougiers e Dracy in Francia e Wharram Percy in Inghilterra. L’Italia si presentò senza alcuno studio.
3) In telecomunicazioni il termine Wi-Fi (connettività Wi-Fi) indica la tecnica e i relativi dispositivi che consentono a terminali di utenza(computer, cellulare, palmare ecc.) di collegarsi tra loro attraverso una rete locale in maniera wireless (WLAN). A sua volta la rete locale così ottenuta può essere interallacciata alla rete Internet tramite un router (dispositivo di rete) ed usufruire di tutti i servizi di connettività offerti da un Internet Service Provider, ossia un fornitore di servizi Internet.
Con il termine middleware, letteralmente “software di mezzo”, s’intende « un software di connessione che consiste in un insieme di servizi e/o di ambienti di sviluppo di applicazioni distribuite che permettono a più entità (processi, oggetti, ecc.), residenti su uno o più elaboratori, di interagire attraverso una rete di interconnessione a dispetto di differenze nei protocolli di comunicazione, architetture dei sistemi locali, sistemi operativi, ecc. ». ossia il « … software che rende accessibile sul Web risorse hardware o software che prima erano disponibili solo localmente o su reti non Internet».
(Definizione della Facoltà di Ingegneria Informatica dell’università di Roma La Sapienza).
La domotica è la scienza che si occupa dello studio delle tecnologie (ingegneria edile, elettrotecnica, elettronica, telecomunicazioni ed informatica) atte a migliorare la qualità della vita nella casa e più in generale negli ambienti antropizzati. Così ad esempio: migliorare la sicurezza; risparmiare energia; ridurre i costi di gestione; convertire i vecchi ambienti e i vecchi impianti.
4) La tegola termica (o solare) è una cella fotovoltaica che trasforma l’energia solare in energia elettrica. La tegola è rivestita da un vetro temprato dello spessore di 4 mm, che la mette a riparo da pioggia e intemperie. Ogni tegola contiene una fotovoltaica c. Per ottenere 1 kWp sono necessari circa 18 mq. di copertura, che corrispondono a circa 250 tegole fotovoltaiche.