di MORRIS l. GHEZZI
Baccelliere: Ritengo presunzione che,
giunto all’età peggiore, si voglia essere
qualcosa quando non si è più nulla.
La vita dell’uomo vive nel sangue,
e quando mai il sangue scorre come in gioventù?
E’ sangue vivo in pienezza di forza, che dalla vita
crea una vita nuova? […].
Eh sì sì, la vecchiaia è una febbre fredda,
piena di brividi, di lune e di miseria.
Quando uno ha passato i trent’anni è tal quale
fosse morto. Il meglio sarebbe ammazzarsi per tempo.Wolfang Goethe, Faust.
L’invecchiamento si presenta come un processo naturale, al quale sono assoggettati tutti i corpi materiali, sia organici che inorganici, sia vegetali che animali. Tuttavia tale processo acquista una valenza culturale, come ogni processo naturale e, più in generale, come ogni situazione relazionata con l’essere umano. Infatti, nell’essere umano la dimensione naturale tende a trasformarsi in artificiale, in quanto il carattere, che meglio identifica l’essere umano, è proprio quello culturale.
La cultura altro non è che l’elaborazione soggettiva, interpretativa dell’ambiente e dei suoi fenomeni messa in essere dall’essere umano stesso. Detta elaborazione può assumere una dimensione più o meno estesa ed omogenea, in dipendenza dal tipo di società nella quale l’essere umano si trova a vivere, ma sarà sempre e comunque presente. Se, dunque, l’elemento culturale connota ogni nostra azione, trasformando nel tempo tutte le residue forme di naturalità, è necessario prendere atto che qualsiasi situazione umana nella sua dimensione culturale risulta essere sempre artificiale. Le stesse terapie, che oggi appaiono banali, naturali, come il taglio del cordone ombelicale o l’alimentazione assistita, in tempi passati erano evidentemente artificiali ed, al contrario, terapie, che oggi appaiono artificiali, in un prossimo futuro potranno apparire naturali; pensiamo a mero titolo d’esempio alla fecondazione assistita, che oggi sembra artificiale come un tempo sembrava artificiale il parto in ospedale.
Chiarito il carattere eminentemente artificiale delle interpretazioni umane, risulta subito evidente che anche l’invecchiamento, accanto alla sua dimensione biologica, presenta anche una dimensione culturale, indagabile in via sociologica. II tema intorno al quale riflettere, in questi termini, non riguarda il mero decorrere del tempo, ma il significato che tale decorso assume nell’interpretazione del soggetto interessato e della società in cui vive. Detta interpretazione condizionerà sia il suo modo di sentirsi, sia le modalità secondo le quali viene vissuto dalla società cui appartiene. Non è, infatti, difficile constatare come le varie e diverse società storiche abbiano riservato trattamenti diversi agli anziani, oscillando tra i due estremi, da un lato, della loro centralità e rilevanza sociale e, dall’alto lato, della loro marginalità ed inutilità, in quanto non più soggetti economicamente produttivi. Nella società contemporanea occidentale all’elemento socio-economico si è anche aggiunto l’elemento estetico, per cui l’invecchiamento non riguarda più esclusivamente le dimensioni dell’autorevolezza e del potere, ma si estende anche all’efficienza ed all’aspetto fisico. E’ ormai panorama comune delle nostre società la visione di un perenne mascheramento del proprio essere. Ciò che conta è l’immagine, la forma, non la situazione reale. Parafrasando il vecchio adagio, che contrapponeva nelle società industriali della metà del ‘900 l‘essere all’avere, oggi, nelle società postindustriali, si viene a contrapporre l’essere all’apparire. Non è un caso che l’esibizionismo televisivo abbia ormai invaso la cultura di tutti i ceti sociali e la precarietà dell’evanescente presenza fotografica abbia preso il posto delle solide e stabili presenze strutturali.
Ciò lo si percepisce anche nelle scelte lavorative, quando sono possibili, dei giovani, ma non solo: dalla modella, dalla velina alla velona, al calciatore sino anche al criminale, purché protagonista mediatico, la corsa ad apparire, senza né essere, né possedere qualità, competenze, abilità, conoscenze, etc. particolari e significative, risulta quotidianamente evidente. A questa voglia incontenibile di apparenze si accoppia il contenuto dell’apparenza; ossia l’immagine stereotipata, che mediaticamente tende ad essere quella costruita in una sorta di realtà virtuale, nella quale collocare la vita di tutti i giorni. Nascono in questo modo le icone della famiglia mulino bianco, delle vacanze esotiche senza inconvenienti ambientali, delle crociere enclavi spazio-temporali, che isolano dal resto del mondo, delle abilità sportive e lavorative innate, dell’avventura senza rischi, dell’estrema facilità di carriere lavorative e di conversioni occupazionali e, quasi a coronamento di questo mondo ideale, di una perenne salute, efficienza fisica, ed immagine giovanile. Basti pensare, a verifica di queste immagini, al fenomeno del settantenne sempre giovane, del cinquantenne sportivo, del trentenne rampante e della donna dal perenne corpo di fotomodella minorenne.
Tutti questi modelli irreali costruiscono un ambito di cultura sociale, che tende ad occultare il trascorrere del tempo e l’ingiuria del medesimo sui corpi. In altre parole, si disegna nel sociale un tempo immobile, cristallizzato e, conseguentemente quindi, privo di vecchiaia. Poiché, però, il fattore tempo tende a forzare le porte di questo paradiso artificiale, la tecnologia ha approntato dei baluardi difensivi articolati, che si estendono dalla cosmesi, alla chirurgia estetica sino ad arrivare alla falsificazione fotografica dell’immagine; ma sempre di immagine si tratta, non certo di sostanza, di realtà. In questa rincorsa alla falsificazione l’immagine, che viene scolpita immobile ed immutabile nel tempo, è quella del giovane dio o della giovane dea sana, bella, ricca, sempre efficiente, pronta a tutti i piaceri della vita ed immune non solo dalla vecchiaia, ma anche dalla morte stessa. Per inciso, nella cultura attuale la morte tende ad essere vissuta come una anomalia, come un imprevisto, come un incidente; non casualmente, infatti, aumentano i contenziosi giudiziari nelle eventualità, che dovrebbero essere considerate normali, di inefficacia, di impotenza, di impossibilità terapeutica. Se la malattia e la morte sono fenomeni innaturali risulta evidente che si deve sempre cercare l’imputato della loro comparsa, per allocare responsabilità e colpe. In sintesi, si presuppone l’onnipotenza della medicina e della tecnologia, nonché l’immortalità dei corpi. Le aspirazioni, i desideri sono divenuti aspettative e le aspettative sono state trasformate, nel mondo virtuale, in realtà.
Risulta immediatamente evidente che un simile mondo virtuale non può descrivere la realtà e le sue effettive problematiche, i suoi drammatici avvenimenti quotidiani ed, allora, si procede alla rimozione culturale della realtà indesiderata. Si inizia sul piano linguistico con il ripulire il vocabolario dai termini imbarazzanti, che manifestano una realtà sgradevole, ed ecco, dunque, apparire le società in via di sviluppo, gli operatori ecologici, i diversamente abili ed anche gli abitatori della terza età, teorizzando quest’ultima situazione con la giustificazione, tutta filosofico-soggettivistica, che un individuo possiede l’età che si sente e non quella anagrafica.
Se questa cultura, votata all’illusione, coopera a far vivere meglio le persone, tutto si muove per il meglio, nel migliore dei mondi possibili, ma, purtroppo, poiché su questo argomento Voltaire con il suo Candide ebbe la meglio sull’ottimismo di Leibniz, l’oscenità della malattia, della vecchiaia ed, in fine, della morte riescono a prevalere sulla buona volontà del mondo virtuale e si giunge impreparati culturalmente lungo il bordo dell’abisso. Le nostre attuali società tendono ad abbandonare l’elaborazione ritualistica del dolore attraverso il suo oscuramento, la sua cancellazione. Infatti, le malattie vengono incapsulate entro terminologie e prassi scientificamente sempre più asettiche, gli ambienti sanitari sono sempre più separati, isolati dal mondo dei sani, gli anziani vengono collocati in appositi ambienti extra famigliari (case di riposo), quando perdono la loro capacità di partecipare attivamente alla vita sociale, ed anche funerali e sepolture si trasformano in riti sempre più sbrigativi e quasi furtivi: l’uso della cremazione facilita la cancellazione rapida dell’oscenità cadaverica ed i cimiteri assomigliano sempre più ad una vorticosa catena di montaggio della decomposizione organica.
Non si può certo negare che le conoscenze scientifiche e le abilità tecniche attuali abbiano decisamente migliorato le condizioni di vita dell’essere umano delle società postindustriali: hanno rafforzato la sua salute, rallentato l’invecchiamento ed allungato la vita, ma non hanno certo risolto definitivamente i suoi problemi esistenziali. Culturalmente parlando, il rallentamento dell’incedere della vecchiaia e l’allungamento della vita hanno prodotto, al di là dell’immediata soddisfazione dei protagonisti del miracolo, nuovi problemi relativi alla qualità della vita stessa e, dal punto di vista socio-politico, la formazione di una prevalente gerontocrazia sociale a tutto scapito dei giovani ed a tutto favore dei ceti più elevati. Abbiamo solo salito un ulteriore gradino nella scala del progresso e dello sviluppo scientifico. La scienza riesce a rinviare nel tempo i problemi esistenziali umani, ma non a cancellarli, non a costruire quel mondo virtuale nel quale malattie, vecchiaia e morte non esistono. La disillusione, dunque, incombe sulle nostre teste come una spada di Damocle, come un perenne pericolo e, per esorcizzare questo pericolo, l’attuale cultura sociale ha imboccato la strada della cancellazione del problema piuttosto di quella della sua elaborazione e gestione. Nessuna strada può dirsi in assoluto migliore di qualsiasi altra, si tratta sempre di verificarne in pratica gli effetti e di valutarne pregi e difetti. Certamente l’anestesia permanete facilita la vita umana, ma la rende impreparata ed attonita di fronte ai suoi inevitabili esiti, ai suoi appuntamenti ineludibili. Ed, infatti, da questo stupore e sconcerto fuoriesce nelle nostre società un certo edonismo nichilista, che, se appare in superficie una semplice via di fuga occasionale dalla realtà, ad una analisi più approfondita si manifesta in tutta la sua coerenza filosofica, come risposta al vuoto di senso, che accompagna l’apparire inatteso dei drammi rimossi di malattia, vecchiaia e morte.
La storia della cultura sociale ha fornito molte e varie risposte a questi drammi. Ad esempio, forse la risposta più risolutiva a questi temi è stata data nel mondo antico ed in quello proto cristiano da una certa corrente filosofico-religiosa gnostica, che ha teso a svalutare il senso e l’importanza della vita stessa, sentenziando che il meglio è non nascere e qualora si nasca, il meglio è morire prima possibile. Il Coro dell’Edipo a Colono ammonisce:
“Non essere nati è condizione
che tutte supera; ma poi, una volta apparsi,
tornare al più presto colà donde si venne,
è certo il secondo bene.”1.
Ed anche in epoca più recente, nel Faust di Wolfang Goethe, Mefistofele sentenzia:
“Io sono lo spirito che sempre nega. Ed a ragione; poiché tutto ciò che nasce merita di perire; perciò meglio sarebbe che niente nascesse. Quindi tutto ciò che voi chiamate peccato, distruzione, e, insomma, Male è il mio elemento.”2.
E’ chiaro che in questi termini il problema della vecchiaia e della morte non si pone neppure. Certamente nel nostro attuale quadro culturale non può essere questa la risposta da fornire alle problematiche appena affrontate. Ma non è neppure una risposta completamente accettabile quella che costruisce una mitologia di perenne e crescente successo giovanilistico. La realtà non può essere mito e quando si trasforma in mito produce effetti dirompenti in quelle fasce sociali, che non riescono a vivere, a causa dei propri limiti socio-economici, nella mitologia del virtuale. Non solo il mito disegna una società che, nella migliore delle ipotesi, appartiene solo ad una minoranza fortunata, ma condanna la maggioranza sfortunata ad una disperazione ancora maggiore di quella che la sua sfortuna comporterebbe. Infatti, il mito lascia privi di difese emotive, psicologiche e sociali coloro che non possono o non riescono ad entrare nel confortante e confortevole mondo dell’età dell’oro, del transitorio benessere del consumismo sfrenato. Il virtuale soddisfa nella sua capacità di creare zone d’ombra entro le quali celare la vista del male, ma non impedisce che questa visione appaia quando, metaforicamente parlando, l’inesorabilità della luce del sole vince le tenebre. Allora, il male si presenta inatteso a chi è impreparato ad accoglierlo, anche ai più fortunati, che sino a quel momento erano riusciti ad esorcizzarlo attraverso il denaro.
Sarebbe, dunque, più utile nella gestione della vecchiaia non costruire mitologie giovanilistiche, ma elaborare ruoli diversi, pur nell’eguale, equivalente importanza di tutte le età della vita, in dipendenza, appunto, dalle caratteristiche diverse, che contraddistinguono i differenti momenti esistenziali dell’essere umano. La cultura sociale non può certo modificare la realtà empirica, ma è in grado di giustificarla e renderla psicologicamente sopportabile, fornendola di senso sociale. Non si tratta, dunque in conclusione, né di costruire mondi mitologici virtuali, né di nascondere i fenomeni reali, ma di gestire la realtà attraverso l’elaborazione di un senso culturale, che sia in grado di costruisce ruoli e status sociali entro i quali ricavare i vari spazi esistenziali dei singoli individui umani nelle loro diverse età anagrafiche e nelle loro differenti situazioni fisiche. Se non si è in grado di compiere questa operazione culturale si è condannati a mimetizzare la realtà ed ad introdurre surrogati funzionali per sostenere l’illusione realistica del fenomeno virtuale. Ecco allora subentrare l’immagine artefatta o, peggio, il denaro come solvente universale di ogni problema, come sostituto funzionale di ogni inadeguatezza: la dignità della vita umana cede il passo alla sua commercializzazione… ed il vecchio cerca di riacquistare la propria giovanile freschezza non alla esoterica fontana della giovinezza, ma al mercato delle tecnologie estetiche o, direttamente, all’asta degli opportunismi sociali, delle ipocrisie carrieristiche e delle adulazioni politiche, sempre disposte a testimoniare e lodare ciò che non vedono, pur di ottenere ciò che desiderano.