di ELISA CASADEI
Senlis, 1913. Seraphine Louise (Yolande Moreau) è una sguattera, povera, emarginata e alienata. Di giorno lavora come donna di servizio, di notte dipinge. Nessuno sa che grazie a Wilhelm Uhde (Ulrich Tukur) i suoi quadri naïve un giorno saranno esposti nelle gallerie di tutto il mondo.
Martin Provost con questo film vincitore di sette premi Cesar (gli equivalenti francesi dell’Oscar), ci racconta una straordinaria vicenda umana ed artistica.
L’interpretazione di Yolande Moreau è perfetta. La sua recitazione è delicata, essenziale ma non per questo priva di spessore. Ogni sguardo e ogni gesto, persino quelli più quotidiani, rivelano un mondo di pensieri e di passioni inespresse. Come ha affermato lo stesso regista in un’intervista, “Yolande non recita, incarna Séraphine”.
Provost ci cala con maestria nell’universo di Séraphine, la cui innocenza si scontra con la scaltrezza delle classi medio alte. Dipingere è ciò che le permette di sopravvivere in un mondo in cui è trasparente agli occhi degli altri. I suoi quadri sono “primitivi”, rivelano una forza allo stesso tempo basica e pura. La natura, sua ispirazione e rifugio, è presente durante il film in sequenze e inquadrature di una bellezza mistica, come mistica è la relazione che Séraphine ha con la sua arte.
La regia, così sobria e lineare – gli effetti e i movimenti di macchina sono pochissimi – permette di far vivere con forza tutte le contraddizioni, l’umanità e il mistero di un’anima semplice ma inquieta.
Interessante e ben resa è la relazione tra Seraphine e il suo mecenate Wilhelm Uhde, interpretato da un intenso Tukur.
Il film è un piccolo capolavoro di perfezione ed equilibrio, in cui la descrizione cede il passo all’evocazione e l’azione alla voce dell’anima.
