di THOMAS MARGONI
La Mostra Cinematografica di Venezia, grande appuntamento di fine estate al Lido, ha fatto nascere accese polemiche in questi giorni per via della proiezione del film di Michele Placido sulla vita del “Bel Renè”, il bandito e assassino Renato Vallanzasca, assurto a mito ancora libero negli anni ’70.
Ovvio che il discorso verta soprattutto su questioni di opportunità, ma c’è da dire che vanno risolte anche alcune domande che appartengono al piano più propriamente storico. Un film siffatto è da fare o no? Sì, se serve a ricostruire storicamente l’esatta figura di un personaggio, collocandolo nel tempo in cui operò e con i connotati reali che lo contraddistinsero, senza alcuna distorsione.
No, se alla fredda e cruda rappresentazione di quel che fu, si sostituisce un’elevazione quasi voluttuosa del personaggio in questione ad eroe e mito, specie se tale eroe è (come Vallanzasca) eroe cattivo. Ora, riconosco che Michele Placido, al quale tributo i meriti che a mio avviso ha, non abbia avuto l’intenzione scoperta di indulgere al voyeurismo torbido o alla mitizzazione negativa, che pure fanno gran presa sul pubblico, ma abbia cercato di fornire un quadro tutto sommato obiettivo. Devo però aggiungere che l’operazione gli è riuscita solo a metà, perché francamente, e non mi riferisco alla discutibile battuta sui ‘peggiori’ fatta in conferenza stampa, il film rende un Renato Vallanzasca non storico in senso diretto.
E’ un uomo che sensualmente attrae con la sua forza quasi esagerata e incontrollabile di emanare male e violenza, è un soggetto dai tratti eccessivi, anche se il vero problema non sta qui. Il punto è che Placido si compiace troppo del suo Renè, e lo si sente, laddove sentire significhi ‘sentire’ sulla pelle, avvertire nelle vene e nel sangue. Questa sensualità alla Verlaine non è giustificabile, e non lo è perché viene a mancare il rispetto per le vittime ed i parenti. Nessuno vuole negare che il Male attragga, anzi attrae più del Bene, ma i limiti della decenza nella considerazione dei sentimenti umani qui sono oltrepassati. Michele Placido lavora bene, e non intende fare qualcosa ‘di male’, ma lofa egualmente, ed è per questo che le critiche sono a mio avviso condivisibili.
L’artista convince, l’uomo eccede. E si badi, eccede su un tema che tocca nervi scoperti: quando egli denuncia come Vallanzasca sia uno dei pochi ad aver pagato in carcere dice il vero, ma erra quando considera ciò una sorta di liberatoria per il suo film di ‘pancia’.
Altra grande protagonista a Venezia la giornalista Rula ebrea, sceneggiatrice di “Miral”, il film che racconta quarant’anni di guerra israelo-palestinese vista dagli occhi di quattro donne.
In particolare la nota firma della televisione si rivede nell’amore che lega la ragazza che dà il titolo all’opera con un uomo palestinese, amore impossibile e proibito.
Il film vuole espressamente essere un monito affinchè la guerra finisca subito, e devo dire che i tributi ricevuti dalla Jebreal e dal compagno-regista Schnabel sono a mio parere meritatissimi, giacchè riescono a trasmettere un messaggio pulito, senza indulgere, e qui li misuro, seppure a distanza, con Placido, ad eccessi di ‘carnalità maligna’. Non si avverte in “Miral” alcun compiacimento nella denuncia delle tragedia, tragedia orrenda e folle che eppure disintegra ogni puro sentire umano, sacrificandolo all’altare dell’odio e della morte. Ma è la guerra che ha in sé i tratti della purezza, che rende la sofferenza ‘pulita’, non distorta come nel film sul bandito.
Qui si ha una vera elevazione dell’amore, a unico mezzo in grado di portare alla pace due popoli che si ritrovano costretti ad odiarsi anche quando in realtà vorrebbero solo correre ad abbracciarsi;vi è la descrizione scabra e netta come un diamante, di una crudeltà quasi ancestrale, così diversa da quelle che i nostri occhi vedono ogni giorno, così ‘giusta’, o meglio ‘giustificabile’, pur nell’abisso del non-senso che è il conflitto.
Rula Jebreal lavora bene, e questo lo ha fatto anche Placido, ma lavora anche storicamente bene, e questo Placido lo ha fatto un po’ meno.